Il quadro politico e sociale
Qual’era, all’origine della storia di famiglia, la situazione politica, sociale ed economica della zona di Beduzzo? La domanda non è ovviamente semplice. Il territorio di Beduzzo, sede dell’omonima pieve, ricadeva nel Ducato di Milano e sotto il diretto controllo della famiglia Rossi. I Visconti avevano acquisito la zona di Parma e Piacenza circa nel 1344 e, dopo una parentesi in cui Parma era stata occupata dagli Estensi (1409 – 1420), era rientrata nell’orbita dello Stato milanese. Oltre il crinale del monte che sovrasta Beduzzo le terre erano soggette ad altre famiglie potenti, come ad esempio i Fieschi con Calestano, posto a cavallo delle valli del Parma e della Baganza, loro feudo già nel XIII secolo e fino alla prima metà del ‘600, quando passò alla famiglia Tarasconi. Ma il versante della valle che qui interessa risulta inserito invece stabilmente nei possessi della famiglia Rossi.
I conti Rossi, feudatari di Beduzzo
Cominciamo quindi con una brevissima premessa sulle vicende dei Rossi di Parma, estratta dalla relativa voce dell’Enciclopedia Treccani: potenti soprattutto nei secoli XIII - XIV, si estinsero nel 1825. Fin verso la metà del secolo XIII i Rossi furono, come la loro città, partigiani dell’imperatore; poi (1245) cambiarono campo, a causa del matrimonio di Bernardo d’Orlando con la sorella di Innocenzo IV. Mentre il ramo principale s’estinse al principio del secolo XIV, la discendenza fu continuata da Guglielmo, i cui figli, Marsilio, Rolando e Pietro, quali vicari imperiali, riuscirono per un certo tempo ad assicurarsi la signoria di Parma e anche di Lucca, che poi (1335) furono costretti a cedere agli Scaligeri. Rifugiatisi a Venezia, i Rossi furono i maggiori condottieri dell’esercito veneto-fiorentino contro gli Scaligeri, riuscendo a restaurare in Padova la signoria carrarese. Marsilio e Pietro morirono in questa guerra (1337). I Rossi furono poi al servizio dei Visconti, aiutandoli a conquistare Parma (1345). Al crollo del ducato visconteo, Pier Maria fu (1404) signore di Parma con Ottobono Terzi, poi suo acerrimo rivale. Ludovico il Moro bandì da Parma i Rossi, i quali riebbero i beni da Luigi XII (1500). In un primo momento i Rossi furono in competizione coi nuovi signori di Parma, i Farnese, poi si rassegnarono a mettersi al loro servizio.
Dopo questa rapidissima panoramica, vediamo invece più in dettaglio la situazione locale.
Il Quattrocento vede la nascita degli Stati regionali ed il superamento di Comuni e Signorie cittadine, tuttavia, nonostante lo sforzo per giungere a stati omogenei con solide strutture centralizzate, in essi, in particolare in quello che ci interessa, sono ancora presenti particolarismi signorili di lontana origine feudale che mantengono vitalità e potenza. La collocazione fisica di queste signorie, una sorta di “stati nello stato” è generalmente in zone periferiche e montagnose, lontano dall’influenza delle città e al sicuro da attacchi militari. I Rossi di Parma ne sono un tipico esempio.
A livello politico si assiste al tentativo dello Stato principesco in via di consolidamento di ridefinire a proprio vantaggio tali autonomie signorili del contado, sanzionando l’esistente potere delle famiglie nobiliari, di regola di antica origine ecclesiastica o imperiale, con nuove investiture su base diversa, che implicavano in ogni caso un riconoscimento del potere centrale e per i feudatari una derivazione del proprio da questo. Paradossalmente, quindi, almeno in apparenza, lo sforzo di unificazione passò attraverso il riconoscimento dei citati particolarismi. Ciò è vero anche per tali formazioni nell’arco appenninico, dove esse sono numerose: tra queste è molto noto il cosiddetto “Stato Pallavicino”, della famiglia omonima, tra Parma e Piacenza. Altre minori si erano costituite intorno a rocche o abitati rurali sotto il potere di famiglie nobiliari1 .
Anche nel caso di quella dei Rossi, ufficialmente i suoi territori appaiono soggetti alla città di Parma, tuttavia essi sono controllati, nel ‘400, da uno dei più vivaci esponenti di tale famiglia, Pietro Maria. Fa amministrare la giustizia da suoi funzionari, gli uomini dei suoi territori gli obbediscono, probabilmente trovano in lui un difensore nei confronti delle pretese fiscali del comune di Parma. Di quest’ultimo fatto si può trovare forse indiretta conferma nel fatto che, seppur in quel momento sotto signoria estense e non viscontea, il territorio del comune di Corniglio non risulta sottoposto a imposizione nell’estimo del sale redatto nel 1415, mentre a Beduzzo risulta attribuita la somma dovuta, ma non concretamente ripartita fra gli abitanti2.
Pietro Maria Rossi, come altri feudatari, fu sottoposto a un giudizio per determinare la legittimità dei propri diritti giurisdizionali sui territori a lui soggetti nel 1445, e in tale sede avrebbe rivendicato l’originarietà dei propri possessi al di là di ogni investitura da parte dei Visconti. Ma anche le concessioni feudali operate da questi all’interno del disegno “statalista” da essi perseguito comportavano comunque la piena giurisdizione civile e penale o “criminale”.
Nel 1482 Pietro Maria muore mentre si oppone a Ludovico il Moro e i suoi possessi vengono smembrati3. I successori della famiglia che potranno mantenere giurisdizione nelle terre che ci interessano sono ridimensionati a feudatari di nomina ducale. La situazione che si ha nel 1562, anno di un estimo rurale che interessa anche Beduzzo, vede un discendente di Pietro Maria, Camillo, nella categoria “de’ faudetari”, di cui è l’unico esponente nella zona, ma è una condizione ormai politicamente ben diversa da quelle illustrate, pur mantenendo la famiglia Rossi notevole ricchezza e influenza. Alla data citata gli abitanti sono comunque regolarmente sottoposti ai prelievi fiscali della Parma Farnesiana.
Ma più in generale le pretese dei feudatari si spinsero comunque molto oltre tali date, come emerge da un parere al Duca da parte dell’ “Eccelso Consiglio” datato al 1672, da cui si arguisce che i feudatari ancora in quegli anni erano soliti chiedere servizi e opere agli abitanti dei territori di competenza, ponendo addirittura dubbi sul fatto se avessero o meno diritto a vitto e mercede4. Per il 1531 c’è anche testimonianza delle diatribe tra città di Parma e feudatari con i loro sudditi per questioni inerenti la tassazione5.
E qual'era l'ambiente sociale in cui cominciò la storia della famiglia Pacchiani e che ha formato la base per le sue vicende successive? Alcuni fenomeni riguardanti le campagne del centro-nord paiono poter riflettere anche quanto avveniva nelle zone che ci riguardano. Un’interessante e leggibilissima panoramica è riportata nel libro di Giovanni Cherubini, “L’Italia rurale del basso medioevo”6. Considerato il fine del presente lavoro non mi posso dilungare, tuttavia accennerò brevemente ai meccanismi che possono aver portato alla struttura della campagna appenninica che dovrebbe rappresentare con una certa approssimazione anche la situazione nel Parmense intorno al XIII-XV secolo.
Nelle campagne comprese nei feudi le famiglie coltivatrici delle terre del signore avevano finito nel corso dei secoli, in virtù di patti di concessione pluriennali, per considerare tali terre possesso proprio, parte del cui ricavato andava forse ancora al signore, ma più come tributo di riconoscimento che come vero e proprio pagamento in natura. Questo era stato sostituito in più casi con un pagamento in moneta. Anche le servitù residue sulle terre di proprietà diretta del signore potevano essere generalmente riscattate con un pagamento in denaro. Tutto ciò aveva rafforzato la convinzione di un possesso della terra da parte del suo coltivatore che si avvicinava sempre più all’idea di una proprietà esclusiva, di cui poter disporre e da lasciare in eredità ai figli. A ciò forse è da aggiungere che, specialmente andando più indietro nel tempo, gli uomini che coltivavano tali terre erano gli uomini del feudatario, che senz’altro lo soccorrevano nelle proprie questioni militari e di difesa e ne traevano essi stessi protezione. In qualche caso le terre possono magari essere state anche confermate a suggello di questi patti di dipendenza o fedeltà.
L’idea che se ne trae, comunque sia, è di piccoli appezzamenti condotti dagli abitanti della zona a proprio vantaggio, con qualche residuo diritto signorile che però è sentito come marginale, onorario quasi, e riscattabile. Tale processo libertario di svincolo da dipendenze è stato forse accelerato sotto l’influenza delle città comunali. Ma mentre nelle zone più direttamente influenzate dalle rinascenti città si assiste ad un fenomeno per cui i cittadini arricchitisi con le proprie attività mercantili o artigiane investono sempre più capitali nella terra, vista comunque come l’unico bene che dà sicurezza e prestigio nonché autosufficienza alimentare, cominciando evidentemente dalle terre più prossime alla città stessa, nella zona che ci interessa, invece, tale generalizzato fenomeno trova un ostacolo nella conformazione del territorio, che diventa – almeno nella direzione dell’Appennino, che qui ci riguarda – sempre più impervio, difficilmente raggiungibile, infido e, non ultimo, meno fertile e produttivo. Nei frequenti anni di difficoltà e carestie i cittadini accelerano il fenomeno della conquista del contado con una vera strategia che, offrendo aiuto ai contadini, cui prestano mezzi per superare le annate difficili o per apportare le necessarie migliorie al fondo, conduce all’indebitamento dei coltivatori e successivamente porta le loro terre direttamente nelle mani dei “sovventori” della città, ed i contadini si trasformano da piccoli proprietari in difficoltà per sopravvivere a braccianti o mezzadri di proprietari cittadini.
Le statistiche riportate dagli storici indicano univocamente tale fenomeno, evidenziando le proporzioni nel possesso di terre e la parcellizzazione delle stesse, per cui la maggioranza della terra fertile di pianura nei dintorni cittadini è passata nelle mani di relativamente poche famiglie “borghesi” e appezzamenti di insufficiente ampiezza appartengono a una moltitudine di piccoli proprietari coltivatori. Si sviluppa nel corso di questi secoli, in particolare per le terre di pianura di cui sto parlando, il contratto di mezzadria, che, seppure con differenze da zona a zona, prevede di dividere a metà spese e frutti del lavoro agricolo sulla campagna. Su tale situazione esiste abbondante documentazione, anche perchè tale contratto si è sempre più esteso in applicazione nel tempo: un tratto costante era il mantenimento del coltivatore mezzadro – le cui famiglie tendevano ad espandersi per avere più forza lavoro per sfruttare la terra – in una situazione di poco più che sopravvivenza, tale da controllarlo agevolmente da parte del proprietario.
Tale situazione tende a non essere più quella caratteristica della conduzione delle campagne e della situazione della famiglia contadina a mano a a mano che ci si allontana dalla città e si va verso le zone periferiche del territorio, in particolare verso le montagne appenniniche. Qui riprende vigore la piccola proprietà contadina, forte anche dell’esistenza di vasti terreni d’uso comune che costituiscono quindi valvola di sfogo per caccia, legname, pascolo e, al limite, per estendere coltivazioni in caso di bisogno. La vita è sicuramente dura, gli appezzamenti non saranno molto più grandi che in pianura e sicuramente meno produttivi, ma vi sono risorse alternative che contribuiscono a mantenere i piccoli possessori. La dieta è più rustica che nelle terre di pianura, i cereali poveri, più resistenti e produttivi e che impoveriscono meno il terreno prevalgono, la castagna è elemento fondamentale e succedaneo del frumento.
Il cambiamento di paesaggio si estende anche al piano politico e del controllo del territorio, come accennato più sopra: l’influenza e il potere della città - prima comunale, poi come centro di potere della signoria - perde presa e si fa più tangibile e imprescindibile - nelle nostre zone almeno fino al Cinquecento - il peso e la potenza di signori feudali che derivano generalmente i propri poteri da lontane investiture imperiali o vescovili o che li hanno conquistati direttamente con la forza militare. Tale ruolo è ricoperto, nella zona che ci interessa, dalla citata famiglia Rossi, pienamente fino alla fine del ‘400 e, declinando in forme e qualità, fino appunto all’epoca in cui i possessi sono incamerati dallo Stato farnesiano, già ormai nel Seicento.
Note
1) Un’approfondita analisi sulla formazione degli Stati regionali è fatta da Giorgio Chittolini, nel suo “La formazione dello Stato regionale e le istituzioni del contado. Secoli XIV e XV”, Torino, 1979, da cui è tratta la considerazione nel testo.
2) Cfr. “L’estimo del sale di Parma del 1415”, a cura di Marisa Zanzucchi Castelli e Giuseppe Trenti, Modena – Parma, 1999.
3) Cfr. Giorgio Chittolini, “La formazione...” cit., pag. 274 e s.
4) Cfr. Archivio di Stato di Parma, fondo “Comune”, busta 2055.
5) Stessa fonte, fascicolo 2055/4.
6) Roma-Bari, 1984.