Altri parenti sull'Appennino: i Taruffi
La nonna Tina: un nome che nascondeva altro
Verso la fine degli anni ’80, i suoi romanzi, la settimana enigmistica – un giornale che ho sempre associato a tutti i nonni – la televisione, tenuta piuttosto alta perché ci sentiva poco, qualche passeggiata le riempivano le giornate. Quando le chiedevo di raccontarmi episodi della sua vita passata, qualche ricordo, per esempio, delle prime macchine – mi affascinava l’idea che lei le avesse viste al momento, per le strade – non rispondeva che brevemente e non mi dava nessuna soddisfazione. Gli unici ricordi sono alcune pagine di un diario dei primi anni ’80, che interruppe però quasi subito. Non era una donna che vivesse di ricordi e non indulgeva quindi a richiamarli spesso alla memoria. Solo i ritratti dei genitori e una foto del nonno facevano da collegamento col passato. Non ho trovato a casa sua, dopo la sua scomparsa, nessuna lettera, niente foto. Tante cartoline, recenti, ricevute dai figli e dai nipoti. Il probabile lungo carteggio con la cugina Tisa non ha lasciato traccia e anche quello con Paola Raschi, moglie di Pietro di Trarì, insegnante elementare a Beduzzo e sua collega, con cui aveva cordiali rapporti, è testimoniato solo da una superstite breve letterina. Non mi sono mai spiegato questa assenza di carte, forse perché io sono l’opposto, tengo tutto. Era essenziale, non rimuginava sul passato. Non raccontava i suoi sentimenti al di fuori di loro versioni dal sapore letterario, come se non volesse in realtà scoprirsi davvero in profondità. Che aspetto aveva la nonna Tina? Gli occhi erano grigi, l’altezza sul metro e sessanta. Non era magra, ma proporzionata, forse si poteva dire appena un po’ in carne.
Tina: è con questo nome che appare agli albori dei miei ricordi. Margherita l’ho imparato dopo, era il nome dei documenti ufficiali e il primo dei suoi nomi di battesimo, separato dagli altri, mai usati, da virgole che le permettevano di non doverli allineare nelle firme: Margherita, Maria, Teresa. Perfino io – che pure domande di questo tipo me ne faccio sempre volentieri – mi spiegavo il nome Tina con un diminutivo del nome, quindi Margheritina, un vezzeggiativo forse un po’ dolciastro, ma plausibile. E invece adesso, parlando con parenti con cui non avevo personalmente mai avuto contatti diretti, i cugini del papà che abitano a Parma – con grande naturalezza parlavano della «zia Valentina»: questo era infatti il nome con cui la nonna si faceva normalmente chiamare un tempo. E Tina come diminutivo appare adatto e comunque non c’è dubbio, anche il fratello Abdon la chiamava in quel modo e ora a tagliare la testa al toro c’è il fatto che nello «stato delle anime» della parrocchia di Granaglione dell’anno 1902, dove all’epoca risiedeva la famiglia, la nonna appare proprio col nome d’uso, evidentemente abituale, di Valentina. Sembra che nessuno dei miei si fosse mai domandato davvero l’origine di «Tina», un’ulteriore conferma dell’estrema riservatezza che la nonna aveva steso come un velo sulla sua gioventù.
L’atto di nascita della nonna, numero 369, formato il 10 settembre 1898, suona più o meno così: si presenta Menarini Marianna, di Budrio, levatrice, che dichiara l’avvenuta nascita della nonna, nata alle ore quattro del 5 settembre 1898 nella casa posta in frazione B n. 158 da Righi Ida, insegnante e da Taruffi Biagio, minatore, entrambi residenti a Granaglione. Il nome completo risulta essere Margherita, Maria, Teresa Taruffi; c’è anche l’annotazione del suo matrimonio a Beduzzo in data 26 novembre 1932 con Alberto Pacchiani. Righi, il cognome della bisnonna Ida, è assai diffuso in area bolognese e bisognerebbe recarsi a Budrio per iniziare delle indagini. Resta infatti ignoto se fosse originaria di lì o se fosse invece anch’essa della montagna. Per lei la nonna Tina aveva un vero culto, ed era l’unica parente di cui parlasse volentieri, anche se non andava poi mai oltre il fatto che era una maestra e che lei le era stata molto affezionata. In questa vecchia foto, intorno al 1912, secondo una mia stima, la famiglia è in posa:
Al centro mamma Ida, alla sua destra la primogenita Margherita, a sinistra il secondogenito Abdon. Lo sfondo è agreste. Tina e Abdon sono vestiti da città, la nonna porta sulla sinistra il suo amato mandolino. Nessuno sorride, poco decifrabili le espressioni. Di rilievo la mancanza del padre, sul retro in bella grafia: «la famiglia Ida Righi, Margherita Taruffi e Abdon», quasi che per nozione comune il padre, sempre assente, non ne facesse parte. L’assenza di tale figura ha sicuramente influenzato la nonna e forse non è estranea alla damnatio memoriae che ha poi colpito le figure maschili della famiglia Taruffi, compresi, parrebbe, i fratelli e cioè gli zii della nonna. Della famiglia d’origine Taruffi, infatti, non c’erano racconti, non se ne parlava mai.
I Taruffi
I Taruffi sono una casata antica e nobile di Bologna, che ha dato studiosi e artisti e da cui discende anche il famoso pilota Piero, laziale, ma di origine bolognese. È un cognome presente in tutto il Bolognese e anche nel Pistoiese, sebbene in particolare sia diffuso nel paese di Granaglione, sull’Appennino, per cui la località, e in particolare l’abitato di Poggio dei Boschi, si candida ad essere il luogo d’origine del ramo. Il suono, nell'immaginario italiano, ha suggestioni arabe o turche, che in qualche misura si potrebbero intravvedere anche nello stemma. Va però notato come in antico esisteva il nome Tarulf, Tarulfus, come testimoniato in alcuni documenti medievali. È quindi più probabile e ragionevole un’origine germanica del nome, poi assimilato in Taruffi.
La casata ha uno stemma univoco, in uso almeno dal Settecento, che consiste in un’immagine complessa che in microlingua araldica sarebbe forse più o meno descritto così: d’azzurro a una scala di quattro pioli, allargata al basso, sormontata da un crescente, accostata da due stelle e accompagnata in palo da un giglio o da un albero. Insomma ha, in alto, una mezzaluna orizzontale con la concavità verso l’alto; dal basso verso questa luna sale una scala a pioli, sotto la quale sta un albero in alcune immagini, una palma o un giglio in altre, mentre sui due lati di questo asse albero-scala-mezzaluna si trovano simmetricamente posti due fiori o stelle o immagini geometriche che ricordano quelle di certe decorazioni degli architravi di pietra. Ogni oggetto dell’immagine è separato dagli altri. Questi stemmi, con minime variazioni, si trovano su qualche casa ottocentesca a Granaglione e dintorni e in antiche pubblicazioni1.
La nonna pareva del tutto indifferente a questi dettagli di storia della famiglia e non ne accennò in alcuna occasione, ma per la verità non parlava mai, e questo è un mai veramente compiuto, della sua famiglia, di parenti o dei suoi anni di infanzia e ancora mai delle località dove aveva vissuto. Era molto parca con noi nei racconti e vi si accingeva solo quando costretta, cosa che capitava di rado anche per il fatto che il concetto di costringere mia nonna a fare qualche cosa non si accorda per nulla con la sua natura. Era lei, eventualmente, che spingeva gli altri a fare. Per cui i rari episodi della sua vita erano perlopiù ridotti a immagini isolate e non risalivano indietro oltre i trent’anni di età, all’incirca. Raccontava che le piaceva vestire con pantaloni e non con gonne e andare in bicicletta, cose non proprio confacenti a una ragazza per bene dell’epoca.
Granaglione e la famiglia Taruffi
Granaglione è un paese arroccato su di una pendice boscosa dell’alto Appennino tosco emiliano a circa 800 metri di altitudine. La zona è proprio sulla demarcazione tra Toscana ed Emilia e anche nei secoli passati ha visto il confine tra le giurisdizioni succedutesi a Bologna e Pistoia. Il paese è frazionato in diverse località tra i boschi, dove la natura appare selvaggia ed aspra, i monti intorno alti, con ripide pendici. Il paesaggio umano vi è immerso e si sostanzia nelle abitazioni che, contro ogni sospetto, sono in gran parte tuttora abitate, anche se in modo discontinuo, dagli eredi degli antichi residenti. Molte case hanno ancora la pietra a vista, con minuscole finestrelle e portali dall'aria antica, con disegni e iscrizioni che testimoniano la lunga storia dell'abitato e conferiscono a questo un aspetto interessante, sedimentato.
Poggio dei Boschi risulta la località con la maggiore frequenza di famiglie Taruffi, se ne dovrebbe ragionevolmente dedurre che dev’essere lì l’origine di tutti. Il cognome infatti non si riscontra in altre zone d’Italia salvo quelle dove membri della famiglia si sono trasferiti nei secoli, ma in nessuna zona i Taruffi si trovano così numerosi come a Granaglione e in particolare nella località di Poggio. Questa avrebbe quindi le carte in regola per essere la fonte originaria della famiglia, risalendo indietro nel tempo di almeno sette od otto secoli fa, dato che testimonianze sparse di Taruffi nel Bolognese risalgono al Duecento. Ed è verosimile una discesa dal monte alle città in pianura, piuttosto che il contrario.
Il ramo da cui è nata anche la nonna era stanziato nell’Ottocento nel rione chiamato “Bovecchia” a Granaglione, non quindi al Poggio. Da carte parrocchiali di San Nicolò, in tale località nel Seicento si trovavano solo due famiglie Taruffi (località denominata "Valle"). Dal loro numero esiguo si dovrebbe dedurre un trasferimento di alcuni elementi Taruffi, verosimilmente dal Poggio, dove erano molto numerose, tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento. Data la loro residenza ancora nell'Ottocento, si presume quindi che il “nostro” ramo Taruffi derivi da questa remota migrazione e da una delle due famiglie in questione. Purtroppo mancano i dati documentali per ricollegare con certezza i due nuclei testimoniati nel Seicento dagli stati delle anime della parrocchia di San Nicolò ai Taruffi ancora a Granaglione nell'Ottocento.
Il padre della nonna, Biagio Giuseppe Taruffi, detto comunemente Giuseppe, era figlio di un Riccardo nato il 10 luglio 1818 a Granaglione-Bovecchia. Il trisnonno aveva avuto due mogli: la prima Angiolina Taruffi, morta giovane, la seconda, Filomena Marconi. Da tale secondo matrimonio era nato Giuseppe.
Non so che mestiere facesse Giuseppe. Mentre nel 1898, alla nascita della nonna, era stato registrato all’anagrafe di Budrio come minatore, a Gaggio avrebbero poi annotato il mestiere di bracciante, ma il dato in sé non è poi, come detto, così indicativo. Il bisnonno nel 1898 aveva 29 anni e forse era già stato a lavorare in miniere, chissà. O magari aveva fatto il carbonaio. Infatti i carbonai, proprio nella zona di Granaglione, erano coloro che lavoravano nei boschi e conoscevano l’arte di creare le carbonaie, dove si produceva il carbone dalla legna bruciata molto lentamente in abili cumuli eretti in apposite radure ricavate nella boscaglia. La verità è che non ho notizie precise.
Dopo l’assunzione della moglie Ida come maestra a Silla di Gaggio Montano, la famiglia nel 1904 lasciò Granaglione per spostarsi un po’ più a nord e a valle, dai dati del comune di Gaggio, in via Bombiana, a Silla 162, una frazione. Qui per oltre vent’anni si è svolta la vita della famiglia parallelamente all’insegnamento da parte della maestra Ida. Inoltre, cosa importante, infanzia e giovinezza dei due fratelli Valentina-Margherita e Abdon. La nonna frequentava collegi in città e verosimilmente anche Abdon, quindi Giuseppe avrà contribuito in questi anni al reddito familiare. In quel periodo, nel 1908, egli era emigrato negli Stati Uniti a lavorare come minatore. Era a Farmington, come un suo compagno di viaggio, un certo Gualandi, sempre di Gaggio. Curioso che nelle carte dell’immigrazione statunitense l’Italia fosse divisa in due provenienze: l’una a nord del Po (North Italy), specificando perfino le regioni considerate tali e aggiungendo che in genere vi si parlavano dialetti di impronta gallica, e l’altra a sud (South Italy) che comprendeva tutto il resto... per cui la Liguria era qui, con Toscana ecc.: una nozione di sud abbastanza ampia. Altri Taruffi sarebbero andati in quegli anni negli USA, ma nessun parente stretto e non a Farmington.
Non ho notizia di emigrazioni precedenti o successive in Belgio, Francia o Germania, dove pure c’erano miniere, ma questo non vuol dire che non fosse così e può quindi essere vero che Giuseppe fosse quasi sempre all’estero, "in giro", come diceva la nonna. Cercava evidentemente di avere migliori condizioni di vita per sé e per la famiglia, magari unitamente a uno spirito avventuroso e quindi in parte individualista. Ciò non toglie che questo compromettesse i rapporti e gli affetti della vita familiare.
Ancora a Granaglione era nato, il 24 gennaio 1901, l’unico fratello della nonna, dal biblico nome di Abdon e la sua nascita nella casa di famiglia al paese avvalora forse l'ipotesi che la nonna fosse nata a Vedrana, dai parenti della madre, a causa dell'assenza del marito in quel periodo.
Aveva anch’egli una chioma folta che coronava, candida, la sua testa chiara. In una foto che lo ritrae da giovane i capelli sono invece scuri, come in origine anche quelli della nonna, e appaiono ribelli. Intorno ai 18 anni aveva vinto un concorso alle Ferrovie: infatti dal 1864 Firenze e Bologna erano unite da un tracciato ferroviario complesso, con molti ponti e gallerie, che costituiva il sistema più moderno di passaggio dell’Appennino, sostituendo i vecchi servizi di diligenze. Una buona opportunità di lavoro in zona, quindi, e un lavoro tecnico, non contadino e neppure in miniera. Negli anni Venti, quindi, si trattava di una delle strade ferrate più importanti e il suo tracciato, seguendo la valle del Reno, passava proprio per Porretta. Lì avrà quindi lavorato Abdon i primi anni della sua carriera, fino al trasferimento a Parma che lo avrebbe visto lasciare l’Appennino e la casa allora a Bombiana - Silla per San Lazzaro Parmense in data 17 marzo 1925 – così le registrazioni del comune di Gaggio. A Parma lo avrebbe poi raggiunto il padre Giuseppe, ormai vedovo.
Abdon aveva sposato l’11 giugno 1924 la «zia Emma», come la chiamavamo noi della famiglia del nipote. All’anagrafe era Eugenia Lenzi, nata il 5 aprile 1902 a Silla, il paesello dove insegnava la mamma di Abdon e dove, abitando anche quest’ultimo, si saranno conosciuti. Lei era una signora piccola e abilissima in cucina. Anche la famiglia Lenzi di questa zia, che conduceva alcune ferriere nella zona, meriterebbe diverse pagine di racconti...
Storie recenti e il trasferimento in Alto Adige
La storia di Granaglione e delle sue famiglie è lunga, e alcune vicende interessanti si trovano perfino a disposizione sul web. Qui ho parzialmente riportato solo l’essenziale delle mie ricerche su questo ramo. Ma la zona anche in tempi recenti è stata attraversata in modo sensibile dalla storia: alcune lapidi lungo le stradine, datate tra il 1944 e 1945, lo confermano. Il passaggio della Linea Gotica in questa zona l’ha resa teatro di azioni partigiane, combattimenti e durissime rappresaglie. Ma per me, da piccolo, i nomi che sentivo dalla nonna: Porretta, Pracchia – questa già nel Pistoiese, per quanto molto vicina – erano solo suoni che collegavo a lei, senza altre connessioni.
Negli ultimi anni di guerra la famiglia era sfollata da Bolzano, tornando nel paese d’origine del nonno, sull'Appennino di Parma, dove la nonna aveva insegnato anni prima e dove c’era ancora la casa dei genitori di lui. La zona di Trarì di Beduzzo non rischiava i bombardamenti a cui erano sottoposte le città, e il cibo lo si procurava più facilmente, ma era anch’essa zona di guerra, i combattimenti tra truppe tedesche e repubblichini contro i partigiani erano estremamente vicini. La nonna era tornata ad insegnare, il nonno doveva stare nascosto spesso, insieme agli uomini del posto che rischiavano altrimenti di venire catturati e deportati. L’attività partigiana era vivace, uccisioni e brutti episodi erano abbastanza comuni. Si temeva per la vita, anche se in questa zona non ci sono stati episodi di rappresaglie feroci contro i civili come nell’Appennino bolognese. La nonna Tina, in un’altra delle sue rare pagine scritte, narra uno degli episodi che aveva altre volte raccontato, in cui la sua casa di Trarì dovette ospitare un distaccamento di truppe tedesche.
«Un giorno in casa nostra entrò un ufficiale tedesco seguito da ufficiali e subalterni. Misero un tavolino a capo scale per la raccolta delle uova e di altre vettovaglie portate dalla popolazione. In cucina c’era il fuoco nel caminetto e il mio figlio più piccolo stava sulla sdraio a scaldarsi. La gente si raccomandava a me perché non venisse fatto del male a nessuno e io cercavo di trattare con educazione quegli ufficiali miei indesiderati ospiti acciò si mostrassero umani con tutti.
Chiesero di dormire in casa mia. Io, i bambini e la nonna ci ritirammo nella mia camera gli altri ufficiali e attendenti si accomodarono nelle altre stanze. Si comportarono educatamente ma nelle altre case molestavano le donne e si approfittavano di tutto. Il nonno, molto vecchio, era scappato anche lui sulla montagna. Altri vennero sorpresi in un pollaio e dopo tanta paura vennero rilasciati dopo tre giorni di arresto perché erano molto vecchi e non capivano la loro lingua per rispondere alle loro domande.
Però giù alla strada furono uccisi due giovani e la disperazione di tutti era grande. Alla mattina i miei ospiti se ne andarono dopo rigidi saluti e qualche ringraziamento.
Però dopo tanto tempo non ricordo bene ciò che avvenne. So che ogni giorno passavano, chiedevano volevano sapere dov’erano i partigiani e promettevano grandi castighi a chi pur sapendolo non li denunciava. Nessuno lo avrebbe fatto e la vita era dura per tutti».
La nonna a questo punto, terminata la guerra e l’occupazione germanica, doveva essere rientrata a Bolzano per rendersi conto di persona della situazione. Voleva ovviamente tornare a insegnare nella sua scuola. Tra le sue carte di insegnante c’era anche una testimonianza del capo partigiano della zona di Beduzzo, Artemio Ughetti, che il 29 luglio 1945 dichiarava che «l’insegnante Taruffi Margherita in Pacchiani sfollata a Beduzzo di Corniglio (Parma), ha insegnato in zona partigiana, dimostrando spirito patriottico in tutti i frangenti».
Non va sottovalutato però, solo perché non ve n’è quasi testimonianza, il contributo personale del nonno che fin dal 1936 era venuto, da solo, a lavorare a Bolzano, facendo quindi da apripista alla famiglia con sacrificio personale e che avrebbe poi continuato a sostenere gli sforzi della nonna per migliorare la situazione della famiglia.
Insieme al nonno aveva compiuto il passo dal mondo rurale alla città, dalla campagna all’industrializzazione. Più che per necessità era stato per precisa scelta, programmata e ponderata. La nonna era probabilmente cresciuta in ambiente cittadino ed era stata educata per un’occupazione non agricola e così anche sua mamma. E’ forse improprio quindi parlare nel suo caso di passaggio dalla campagna alla città, se non per l’ambiente di vita, che passò da agreste o montano come ancora quello dei primi incarichi di insegnante a quello di una città moderna, industriale, al cui sviluppo partecipò attivamente la famiglia.
Questa nel suo insieme visse in pieno queste fasi. Dalla montagna appenninica con le sue attività e tradizioni, i suoi ritmi antichi e i suoi paesaggi alla città, all’industria, al mercato. Le giornate in fabbrica al posto dei lavori alla stalla, nei campi, alle fiere. Il tempo scandito da altri uomini o dalle esigenze di produzione delle macchine, non più dall’alternarsi delle stagioni. Però anche benessere, comodità, soldi, studi per i ragazzi, cure e posizioni sociali migliori. E la coscienza di avere cercato, sostenendosi a vicenda passo dopo passo, un’esistenza più dignitosa e aperta ad ogni possibilità per i propri figli e discendenti.
Non poco, anche se in questo modo, senza che chi viveva questa fase ne potesse cogliere tutte le conseguenze, un mondo tramontava definitivamente.
1) Si veda, per esempio, "Il Blasone Bolognese", che raccoglie bellissime tavole a colori degli stemmi di famiglie bolognesi nobili e cittadine, un'opera pubblicata a Bologna nell'ultimo decennio del Settecento, concepita da Floriano Canetoli, che contiene anche lo stemma dei Taruffi (e a sorpresa pure quello dei Pacchiani, benché di quest'ultimo sfugga il ramo che lo promosse e che avrebbe quindi risieduto a Bologna a quell'epoca). Alcune immagini sono visibili sul sito:
http://badigit.comune.bologna.it/canetoli/index.html , consultato in data 8 aprile 2018.