Storia della famiglia Pacchiani di Beduzzo
I dati recuperati dalle carte antiche che riportano il nome dei Pacchiani non sono moltissimi e sono stati estratti esaminando un numero di documenti enormemente maggiore, come forse sa chi ha curato qualche ricerca d'archivio. Sono come piccole crepe in un muro che lasciano vedere piccole porzioni di quello che c'è di là, riportando frammenti da cui solo a fatica emergono dettagli di vita, e mai diretti. Sono contratti e documenti fiscali, per definizione scarni e ingannatori. Su sei secoli ogni tanto emerge un segnale e questi seguiremo cercando di ricostruire la storia dei Pacchiani della val Parma, partendo da quelli di Beduzzo.
Non scenderò però nei dettagli della vita quotidiana, delle occupazioni di ogni giorno, delle ansie e delle speranze di quelle genti, non sono un romanziere, non posso riempire con ipotesi fantasiose, per quanto sensate, i vuoti che i documenti d’archivio hanno lasciato tra un raro indizio e l’altro. Ed anche rimanendo così su un piano generale, calarsi in realtà diverse e lontane, sempre che sia oggi possibile, richiede una grande conoscenza dei meccanismi che agiscono sulle situazioni e sugli ambienti umani. Anche qualche nozione intorno alle prassi dell’agricoltura farebbe comodo, sul valore delle singole colture nell’economia e nell’alimentazione del tempo: era alla base della vita di questi antenati: è difficile entrare nel loro mondo senza capirne le logiche interne e sarebbe ancora necessario approfondire, nel loro evolversi, i rapporti nell’ambito della famiglia, la struttura di questa e della proprietà e conduzione agraria, la religiosità, i mestieri. Ancora occorrerebbe avere un'idea sugli effetti dei grandi eventi che sono passati su questa terra, le guerre, il ruolo delle compagnie di ventura per l’occupazione dei montanari, gli effetti delle epidemie di peste... francamente troppo per una "semplice" ricerca genealogica.
Iniziamo quindi, dopo aver opportunamente messo le mani avanti, la nostra cronaca, tenendo presente che ho sottolineato gli elementi di coerenza, senza dilungarmi sui dubbi interpretativi, lasciati in secondo piano. Non mi sono distaccato comunque dalle strette risultanze della ricerca.
Un inizio
Intorno alla seconda metà del Trecento, una famiglia trova modo di stabilirsi sulla montagna della Val Parma, magari al seguito dei Visconti, dei Terzi o dei conti Rossi, dai quali potevano essere stati reclutati per le proprie armate uomini da altre zone, in particolare da territori situati nell'area dell'attuale Lombardia, oppure attratti da tali feudatari nelle loro terre in quanto artigiani portatori di qualche tecnica o semplicemente come coloni.
I suoi componenti si distinguono dal cognome, variamente indicato nelle fonti come de Paghianis, Pagiani, Pagrani, de Pachianis, magari da un antenato soprannominato il Pacchia o anche Pacchio, forse quest’ultimo un diminutivo di Iacopo.
Il luogo ove essa si stabilisce, almeno il ramo che poi si evolverà fino a chi scrive, potrebbe già essere Trarì, dove diversi Pacchiani risultano risiedere a metà del Quattrocento. Questo piccolo paesino è una contrada del “comune” rurale di Beduzzo, nel territorio feudale della potente famiglia dei Rossi, i cui esponenti, nobili locali e condottieri operanti nel Norditalia, si sono distinti nelle lotte di potere nell’ambito del comune di Parma, divenendone per un periodo i Signori. Frequentavano i potenti dell'epoca, avevano servito come capitani generali al servizio della Repubblica di Venezia e ancora dei Visconti, Signori di Milano.
Il territorio loro soggetto è presidiato da numerosi castelli e le famiglie che vi risiedono - perlopiù contadini - sono probabilmente in diverso modo tributarie della casata, fornendole collaborazione e anche servendo nelle sue milizie. Non a caso un membro della famiglia Pacchiani, Iacobus, nel 1462 è soprannominato “soldatus”.
Più allentato è per converso il rapporto di questo lembo di Appennino con la città di Parma, capoluogo del distretto, che non è in grado di riscuotere le imposte qui, dove sostanzialmente continuano a governare i Rossi, almeno fino al termine del Quattrocento.
La famiglia
Le fonti storiografiche fanno propendere, per le famiglie dell'epoca e anche in ambito rurale, per nuclei a conduzione unitaria, con al vertice un membro di essa, verosimilmente il patriarca, il più anziano o il primogenito dei vari fratelli che ne avranno potuto far parte. A questo pater familias fanno riferimento le istituzioni per quanto riguarda la titolarità a fini tributari, come si nota in casi analoghi negli estimi fondiari dell’epoca.
I vari componenti, che dobbiamo pensare in genere anche coabitanti, dovevano però avere comunque una propria autonomia, anche se forse limitata, per esempio, al possesso di alcuni beni personali e degli attrezzi di lavoro. Nel caso in cui la famiglia avesse posseduto più case, queste sarebbero quindi state anche fiscalmente sempre riferite al capofamiglia e l’unitarietà del nucleo, del fuoco, non sarebbe stata infranta. Il capofamiglia avrebbe amministrato i beni a nome di tutti. Solo nel caso, che non doveva essere però infrequente, in cui, mancante il padre, fossero esistiti più fratelli maggiorenni, gli atti dispositivi del patrimonio – per esempio, vendite – effettuati dal capofamiglia, appunto normalmente il fratello più anziano, avrebbero dovuto riportare espressamente anche il nome degli altri.
Va detto a questo punto che la maggiore età si raggiungeva in genere non già a 18 anni, o per lo meno, non a tutti gli effetti, bensì solo a 25. Questo almeno per l’epoca che ci riguarda1.
Se la guida della famiglia era così strutturata, cosa accadeva dei beni di famiglia? Dalla documentazione che ho potuto consultare parrebbe che la gestione e la proprietà potessero essere entro certi limiti disgiunte, se gli interessati erano membri di un unitario nucleo familiare. La proprietà ai singoli individui, ma la conduzione al pater familias. Esse sarebbero necessariamente tornate in capo allo stesso soggetto quando questi avesse formato un nucleo separato, andandosene dalla casa di famiglia e ottenendo in tale occasione la “liquidazione” o la “separazione” della sua quota.
Come veniva suddiviso il patrimonio al momento del decesso? La divisione avveniva tra i diversi figli maschi in parti uguali, specialmente se si fosse trattato di successione in assenza di specifico testamento. Ma anche in presenza di questo la successione dei figli era obbligatoria, pur essendo possibili differenze tra questi per motivi inerenti il comportamento o i rapporti col genitore.
Alle figlie spettava di regola la sola dote ed eventualmente qualche altro bene specifico che veniva citato nel testamento. Emerge quindi la tendenza al mantenimento dei beni nella linea maschile e in generale alla minore dispersione possibile del patrimonio. Ciò dovrebbe essere tanto più vero, parlando soprattutto di appezzamenti di terra, quanto più difficilmente produttivi e utilizzabili appaiono fondi di piccole dimensioni e sparpagliati tra monti e colline.
E’ possibile che i fratelli maschi cui non venissero attribuiti sufficienti beni e che non intendessero collaborare nell’azienda familiare si trasferissero altrove a far fortuna, come lavoranti, mezzadri o magari artigiani. A metà del Quattrocento qualcuno aveva comunque anche abbracciato il mestiere delle armi, con ogni probabilità al seguito dello stesso feudatario della zona, il conte Pietro Maria Rossi che non a caso aveva uno dei suoi castelli proprio sopra Beduzzo, ben visibile dalla frazione di Trarì.
I primi antenati conosciuti
Se quanto accennato in generale per le famiglie dell'Appennino emiliano è anche il quadro in cui va collocata la famiglia de Pachianis di Beduzzo, per questa località le fonti indicano ben quattro fuochi fiscali, i cui capifamiglia sono registrati nel già citato estimo del sale del 1462: Girardus Pagranus filius quondam Guiellmini; Bortolus Pagranus filius quondam Iacopini; Peregrinus de Pagranis filius quondam Guiellmi e, ultimo, Iacobus dictus soldatus filius quondam Iacopini Pagrani2.
Nel caso specifico, quindi, non esiste fiscalmente un'unica famiglia Pacchiani, bensì già quattro nuclei separati, mentre il dato puramente onomastico ne indicherebbe la discendenza da due antenati, Iacopinus e Guiellmus - o eventualmente tre se quest'ultimo e Guiellminus non fossero la stessa persona - nati verso la fine del Trecento. Non sembra immotivato presupporre che tali due avi fossero a propria volta tra loro imparentati: le fonti non riportano altri gruppi Pacchiani fuori che a Beduzzo e, come accennato, Traversetolo, località tuttavia un po' più lontana. Non appaiono cioè per questa epoca persone "sparse" sul territorio, il che fa pensare per questi nuclei ad un'origine unitaria. Non muta questa affermazione l'esistenza sempre nel 1462 nella castelantia Felini, al sottotitolo de Paderno et Barbiano, di un Paulus Pagranus filius quondam Luchini, che rimane isolato, forse frutto di una prima migrazione da Beduzzo.
La trascrizione “Pagrani” presente nella fonte di riferimento è in effetti apparentemente spiazzante, ma diverse considerazioni lasciano supporre con verosimiglianza che si possa trattare semplicemente di un errore o una variante per “Pagiani”, come ancora nel Cinquecento si trova scritto il nome che poi si evolverà nel tempo in “Pacchiani”: ma attenzione, probabilmente solo nella grafia, giacché il nome doveva suonare già all’epoca come “Pacchiani”.
Infatti proprio alla stessa epoca e più precisamente il 13 febbraio 14633 a Beduzzo il notaio Baldassarre Banzi stava rogando un atto inerente una dote, in cui interveniva come testimone “Lariono Pachiano filio quondam Iacopini” di Beduzzo: il patronimico “Iacopini” è presente tale e quale nell'appena citato coevo estimo del sale per alcuni “Pagrani”. Non rileva notare che manca il nome di “Lariono”: infatti Lariono, convivendo nell'ambito della famiglia allargata facente riferimento al capofamiglia fiscalmente individuato, non sarebbe comunque stato riepilogato nelle liste generali dell’estimo, dove rimaneva visibile dell'intero nucleo appunto il solo capofamiglia, nel caso specifico o Bortolus o Iacobus, gli (altri) figli di Iacopinus. Nello stesso atto notarile tra le parti appare un certo “Iohannes de Iactonibus filius quondam Iacobi”, anch’egli personaggio attestato proprio nello stesso estimo.
In altre parole, il cognome di famiglia del nostro Lariono di Beduzzo, Pachiani, avrebbe dovuto normalmente apparire tra quelli dei contribuenti dell'estimo: il fatto che invece non ci sia alcun cognome simile, tranne appunto il fuorviante Pagrani, supporta fortemente l'ipotesi che si tratti di grafia diversa per lo stesso patronimico. Può essere accaduto che la scrittura del documento originario - che si ignora - facilitasse un tale errore di trascrizione, unitamente al fatto che il notaio non necessariamente conosceva i cognomi degli abitanti del contado cui si riferisce l’estimo. Tale presupposto si basa anche sulla presenza nelle medesime località dove sono attestati "Pagrani" – Traversetolo, Beduzzo e Barbiano di Felino – un secolo dopo, di famiglie Pacchiani, per le quali altrimenti dovrei ipotizzare una simultanea immigrazione successiva, unitamente alla sparizione di tutti i Pagrani, poichè tale cognome non si trova mai più (e non è peraltro confondibile nella grafia con Pagani, pur presente in alcune diverse località minori, come Ballone o Carobbio).
I Pacchiani quindi erano a Beduzzo fin dalla metà del Quattrocento e tra i nomi citati si devono trovare anche i nostri antenati più antichi, magari proprio Lariono e Iacopino oppure Guglielmo…
Quanti fossero rimane ancora ignoto, ma se il capofamiglia fosse nato agli inizi del secolo, come verosimile se si trattava del membro più anziano, potevano esserci loro figli trentenni o ventenni ancora coabitanti con la famiglia o non ancora sposati che non sono registrati nelle fonti fiscali rimaste, ma solo eventualmente, come per Lariono, in quelle documentarie notarili, dove è citato il singolo individuo. Sembra qui che la famiglia allargata non ricomprendesse anche i fratelli, i quali appaiono infatti come capifamiglia separati, ma non si può comunque mai escludere che anche qualcuno di loro non sposato rimanesse a vivere coi parenti. Ai nostri fini quanto esposto basta per ipotizzare e giustificare l'esistenza di altri Pacchiani a Beduzzo, che però emergerebbero alle cronache solo se fossero intervenuti in qualche atto notarile come attori o anche come testimoni o confinanti di terreni compravenduti.
L'atto citato sopra fornisce altre utili informazioni sulla Beduzzo dell'epoca e su alcuni personaggi che la popolavano: innanzitutto è stato redatto dal notaio - itinerante, essendo residente a Tizzano - nel castello di Beduzzo, entro il quale viene detto che si trovava anche l'abitazione dell'arciprete della pieve, Matheus de Danis. La rocca all'epoca quindi ancora svettava sulla collina del paese dove oggi rimangono pochi resti ed era abbastanza grande per contenere, oltre ai locali necessari all'attività della fortezza e al soggiorno della guarnigione, anche case di abitazione, seppure di un personaggio di rilievo in loco, come era l'arciprete. Nell'affresco del castello di Beduzzo riportato a Torrechiara, come già detto, appare anche una chiesetta annessa alla rocca.
Riporto un estratto della parte finale dell'atto citato:
"Actum in castro de Bedutio, episcopatus Parme, Porte Nove et in domo habitacionis venerabilis domini (dupni) Mathei archipresbiteri plebis de Bedutio, filii quondam Bertolini. Presentibus ipse venerabile domino domino Matheo de Danis archipresbitero plebis de Bedutio, Andrea Immio(di..) filio quondam Gerardi et Lariono Pachiano filio quondam Iacopini, omnibus habitatoribus dicte terre de Bedutio, episcopatus et porte predictis, omnibus testibus notis et (omnibus) ad (predictam) (habitacionem) vocatis et rogatis et asserentibus"4
(Archivio di Stato di Parma, fondo “Notarile”, atti del notaio Baldassarre Banzi, filza 267).
Tra gli altri pochi "instrumenta" che danno voce ai Pacchiani del passato assume rilievo un'altra dichiarazione di dote del 6 novembre 1481, con cui un certo Gerardo del fu Paolo Pacchiani di Beduzzo dichiara di aver ricevuto da Leone de Blanchis a titolo di dote per la defunta moglie Margherita de Blanchis sorella dello stesso Leone 40 lire imperiali in denaro, valori ed in un pezzo di terra nella zona di Sauna in località detta ad Maxerias5.
L'importo della dote, che verosimilmente dopo la morte della moglie sarebbe stata restituita alla famiglia di questa, non sembra essere di minima entità e potrebbe rispecchiare una conforme capacità economica del marito Gerardo.
Appaiono qui, vent'anni dopo le rilevazioni dell'estimo del sale del 1462, altri due membri del ramo di Beduzzo: Gerardo ed il padre Paolo, già morto alla data dell'atto. Paolo poteva essere - ma è una pura ipotesi - uno dei figli, allora conviventi, dei capifamiglia dell'estimo ed in particolare di Girardus Pagranus filius quondam Guiellmini, se ci affidiamo alla consuetudine di dare al nipote il nome del nonno.
Un altro atto interessante, che testimonia l'esistenza di beni fondiari della famiglia nella zona di Beduzzo, è quello, risalente a circa 15 anni dopo e in particolare al 6 maggio 1497, con cui Giovanni Vincenzi di Beduzzo vende a Bartolo Conciatori del fu Antonio anch'egli di Beduzzo un appezzamento di terra da lavoro nella stessa zona in località detta in Luscho, confinante tra le altre con le proprietà di un Giovanni Giacomo Pacchiani, per 4 lire imperiali. L'atto ci informa dell'esistenza di questo Giovanni Giacomo, che potrebbe forse corrispondere al padre di Pietro di cui dirò fra poco ed essere quindi il capostipite della mia famiglia6.
La proprietà fondiaria familiare deve essere stata sparsa entro un territorio non troppo ampio nella zona della “villa” di Beduzzo e comprendente colture a prevalenza di cereali poveri, resistenti al clima di montagna e legumi. Gli animali di taglia grande, come i bovini, sembrano essere presenti in numero di due soprattutto come aiuto per i lavori nei campi, mentre quelli più piccoli, pecore o forse capre, potevano essere allevati per i loro prodotti o per la vendita. Per la tradizione della zona, penso che non saranno mancati i maiali, magari non più di uno o due e le galline, i “galèini”.
Il terreno, collinare e scosceso, non troppo adatto a colture cerealicole nobili, ospitava boschi che fornivano legna e carbone e prati magari destinati ad uso comunitario, su cui far pascolare gli animali, e probabilmente alberi da frutta, tra cui i castagni, da cui ricavare farine per vari usi di cucina. La patata, proveniente dal Nuovo Mondo, potrebbe essere stata introdotta qui proprio tra la fine del Cinquecento ed il Seicento, analogamente al mais nelle pianure. Quindi i famosi tortelli di patata devono essere un’evoluzione più recente rispetto ad altri precursori, forse tortelli di castagna, che qualche antiquario di ricette ha recentemente riscoperto.
L'atto notarile del 6 maggio 1497 è inoltre di particolare interesse perché anche fra i testi figura un Pacchiani: Nicolò barberio figlio del fu Bertono Pacchiani abitante nella zona di Tizzano. Di costui in altri atti che cito infra il notaio precisa che è originario di Beduzzo, benché ormai residente nella zona di Tizzano, dall'altra parte del Parma. Egli non è inoltre un contadino, bensì un barbiere, cioè all'epoca, detto in breve, una specie di medico, anche se di bassa specializzazione.
Questo evidenzia che nel ramo delle famiglie Pacchiani di Beduzzo nel Quattrocento non trovavano posto solo piccoli proprietari di terre dediti alla loro lavorazione, bensì anche professionisti esercitanti un mestiere specialistico. Non mancavano neppure i militari di professione, come Iacobus ricordato prima. Di mastro Nicolò barberius parlerò un po' più diffusamente altrove, seguendo le sorti dei membri della famiglia emigrati a Tizzano e Reno.
Trarì
Infine il 26 agosto 1498 Ilario Conciatori del fu Antonio di Beduzzo, con il consenso della moglie Maria Pacchiani del fu Pellegrino, vende al proprio fratello Bartolo Conciatori il terreno di una casa in muratura con cortile in località Tre Rii, confinante con le proprietà degli eredi del fu Gerardo Pacchiani e di quelli del fu Iacopino Pacchiani, nonché un piccolo appezzamento nella stessa zona coltivato a canapa in località detta in Canavariis ancora confinante con gli eredi del fu Gerardo Pacchiani, per 30 lire imperiali: "sedimen (…) une domus murate cum platea ad ipsam domum spectante et pertinente (positum) in terra de Bidutio, in contrata de Trarivo, cui sunt confines ab una parte heredum quondam Gerardi de Pachianis de Bidutio, ab alia via communis, ab alia parte heredum quondam Iacopini de Pachianis et ab alia parte Iohannis de Conzatoribus de Bidutio"7.
Da questa breve serie di documenti si ha la conferma, se ancora fosse necessaria, del fatto che nella seconda metà del Quattrocento a Beduzzo si trovano diverse famiglie Pacchiani, con vari possedimenti ed occupazioni. Famiglie che devono derivare necessariamente da componenti dei nuclei facenti capo ai capifamiglia titolari delle posizioni fiscali a cui si riferisce l'estimo del 1462.
E infatti almeno a livello onomastico appare congruità: Gerardo del fu Paolo Pacchiani dovrebbe essere un nipote del Gerardo filius quondam Guiellmini dell'estimo di 35 anni prima, a propria volta scomparso. Maria del fu Pellegrino rimanda anch'essa ad un personaggio citato nell'estimo, così come il fu Iacopino i cui eredi sono confinanti rispetto al terreno venduto. Quanti personaggi intermedi esistano in alcuni casi tra questi e gli avi citati nel 1462 rimane ovviamente ipotetico.
Dagli atti emerge inoltre con chiarezza che gli eredi Pacchiani, sia di Gerardo che di Iacopino, avevano già a quest'epoca le loro proprietà a Trarivo, cioè nell'attuale nostro Trarì: l'abitato dove ancora è nato il nonno era già la culla di famiglia oltre 500 anni or sono!
Trarì, come comunemente detto, ha "genealogicamente" poco a che fare con tre rii, come suona il nome ufficiale, ma già di più con il Trarivo citato qui e in altri documenti, nome che sembra senz'altro risalire ad un "intra rivos" originario, idea avvalorata dalla circostanza che il paesino si erge su una costa situata proprio tra due ruscelli più grandi, forse un tempo più corposi, oggi quasi sempre in secca. La trasparente latinità di questo appellativo potrebbe quasi suggerire che l'abitato sia nato da un insediamento programmato, cui fosse pertanto stato attribuito un nome a tavolino, quindi, dati i tempi, in latino, poi adattato al parlar comune dai suoi abitanti.
Il numero elevato di membri di famiglia già rintracciati, confrontato con quelli di cui rimane documentazione successiva per Beduzzo, che sono evidentemente di meno, spinge a pensare che ci fosse una certa mobilità e alcuni componenti la famiglia si spostassero altrove.
Al di là del torrente Parma
Ed in effetti la prima migrazione certa che sono riuscito a rintracciare sembra risalire all'ultimo scorcio del Quattrocento e riguarda il mastro Nicolò barberius di Beduzzo incontrato nel territorio di Tizzano. Uno dei diversi Pacchiani di Beduzzo non fotografati dagli estimi, ma che dovevano essere presenti, di nome Bertono, riusciva a far studiare - o meglio a far fare il necessario apprendistato - al figlio Nicolò, che poi diventerà "barbiere", professione o arte che all'epoca non era limitata alla sistemazione di barba e baffi, ma riguardava aspetti di non alta chirurgia. Da qui il titolo di mastro ("magister") che si trova ad accompagnare quasi sempre il nome di Nicolò. L'occupazione non legata alla terra e magari le conoscenze fatte durante lo studio, verosimilmente avvenuto via da Beduzzo, porta in seguito Nicolò a trasferirsi con la famiglia in una zona più popolosa e dinamica, probabilmente più ricca e quindi più redditizia. Si sposta nelle vicinanze del borgo di Tizzano, più grande e probabilmente più aperto rispetto alla natia Beduzzo, oltre il Parma. L'opera di un chirurgo, anche se di bassa specializzazione, era senz'altro ricercato, rispettato e probabilmente ben pagato, anche se questo forse spesso in natura.
Pacchiani non risultavano in zona all'epoca dell'estimo del sale del 1462 ed il trasferimento avviene probabilmente dopo il 1480: con lui ci sono anche i figli Battista, Stovaninus, Alessandro, Antonio, Bernardino e verosimilmente anche ulteriori membri della famiglia, come suo fratello Giuliano e magari altri ancora. La loro sorte è trattata in altra parte di questa storia.
Pietro Pacchiani e gli estimi
Siamo ormai nel Cinquecento e a Beduzzo facciamo conoscenza con uno dei capifamiglia di cui abbiamo qualche dato in più rispetto agli antenati più remoti. Circa 60 anni dopo l’epoca cui si riferiscono le considerazioni appena fatte per i due rami della genìa de Pachianis, in un estimo del 1562, il più antico in cui appare con assoluta certezza la famiglia, troviamo un capofamiglia Pietro titolare di 36 terre di vario genere, dai campi da lavoro, ai prati, alle terre saldive, quelle meno utili, compreso un terreno su cui sorge la sua casa8. Tali terreni sono registrati nell'estimo per complessive 34 biolche, uno staio e tre tavole che, in base al prontuario della stessa rilevazione, portano ad una tassazione annua di 27 lire, 5 soldi e 7 denari, come diligentemente riportato dai contabili stimatori. In fondo al libro, nell’estimo di bestiami, ha un numero 6 (le altre famiglie vanno da un minimo di 2 ad un massimo di 7): non è specificato chiaramente a che si riferisce tale cifra, è probabile direttamente al numero degli animali da lavoro o produzione, in questo caso senza specificazioni.
Se uniamo questi dati parziali a quelli ricavabili da altre fonti, di cui parlerò qui di seguito, la famiglia del nostro Pietro negli anni intorno al 1570 si delinea abbastanza bene: il capofamiglia ha circa 45 anni, la moglie Maria 5 meno di lui, hanno un figlio, Giannantonio, intorno ai 15 anni, che li può aiutare nella conduzione dei campi e per far pascolare gli animali, che sono almeno due bovini per i lavori nei campi ed altre 6 pecore o capre. Altre due persone fanno parte della famiglia, ma non si hanno notizie specifiche di loro, forse semplicemente sono altri figli minori. I campi da coltivare assommano a 21 biolche, la terra per il pascolo degli animali a 5, quella meno pregiata ad altre 6 biolche. Saranno state sufficienti per sostentare una famiglia così composta? E' difficile dirlo sulla base dei soli dati qui descritti. Per i primi del Quattrocento è stato calcolato che per mantenere una famiglia - nella media di 4 persone - e poter condurre la campagna necessitavano circa 40 biolche di seminativo9; è possibile che migliorie colturali nel periodo intercorso abbiano ridotto un po' questa stima, ma comunque ci troviamo molto al di sotto. Forse l'integrazione data dagli animali e dai loro prodotti: latte, lana, formaggi, nonché da quelli non censiti ma presenti come galline e altri volatili, maiali poteva compensare eventuali carenze. Non si sa neppure se vi fossero occupazioni collaterali di un certo peso, benché la mancanza del titolo di mastro lasci dubbi in proposito.
In definitiva, come si potrà analizzare un po' meglio oltre nel testo, anche se la famiglia sopravviveva dignitosamene, non c'era da stare troppo allegri.
Le notizie sopra riportate si basano su di una serie di documenti fiscali databili intorno agli anni Sessanta o Settanta del Cinquecento: andiamo a vederli singolarmente.
La consistenza della famiglia di Pietro è rilevata innanzitutto da un estimo di bocche probabilmente finalizzato all’applicazione della tassa sul sale. Tali estimi, dei veri censimenti a scopo fiscale, registravano generalmente gli abitanti tra i quattordici e i sessanta o settant' anni. Per ciascun membro della famiglia ed inoltre anche in base alla consistenza dei propri beni, il capofamiglia doveva obbligatoriamente “levare”, cioè acquisire, una certa quantità di sale da specifici uffici pubblici che distribuivano tale indispensabile bene dietro pagamento di una tassa. A Beduzzo risultano in tale occasione 56 nuclei familiari, tra cui uno formato da “Pietro Pachiano de anni 47; Maria sua molia de anni 42; Giovanni Antonio suo figliolo de anni 15”. Deve evidentemente trattarsi ancora del Pietro censito nel 1562 per i terreni. La famiglia appare ristretta a tre componenti, quasi come una di oggi. Sappiamo invece dalle fonti parrocchiali che in media la famiglia dal Seicento al Novecento consisteva di circa sette persone, mentre nei primi decenni del Quattrocento da altre fonti per il Parmense si parla di una media di 4 unità per ogni fuoco. E’ altamente probabile, quindi, che esistessero altri figli più piccoli, cioè sotto i 14 anni, che non venivano conteggiati o forse qualche persona anziana.
Per avvalorare tale ipotesi abbiamo a disposizione un terzo estimo per la tassa sul sale che nel 1581 registra in carico a Pietro 5 bocche, due “bestiami grossi” e sei “minuti” (caprini, ovini). Tenuto presente che questa rilevazione non tiene conto delle persone di età inferiore ai 7 anni, oltre a lui stesso e alla moglie dovevano esistere almeno altre tre persone di cui però, come detto sopra, non si può affermare nulla, anche se uno è sicuramente il figlio Giovanni Antonio cui già si è accennato.
Come si può capire, per i periodi per i quali non si dispone di libri parrocchiali le notizie di carattere anagrafico sfuggono quasi totalmente al ricercatore ed in generale eventuali parenti conviventi, pur esistendo e lavorando sarebbero scomparsi senza avere lasciato dietro di sé traccia alcuna.
Alcuni membri della famiglia potevano però anche abbandonare il nucleo, trasferendosi altrove in cerca di migliori condizioni di vita. Che ciò sia avvenuto in qualche momento anche per noi è ipotesi autorizzata dall’osservazione che nella successione genealogica ricostruibile dagli archivi parrocchiali, iniziati con il 1650, è documentato un numero di nuclei familiari Pacchiani chiaramente inferiore a quelli ipotizzabili – anche se solo teoricamente – in base al numero dei discendenti del ramo in esame. Anche per i periodi successivi di alcune persone non si trova più traccia negli archivi ecclesiastici.
Questo in parte potrà essere forse dovuto alla decimazione degli abitanti legata alle epidemie di peste, da ultimo quella famosa del 1629/1630, che in alcune località eliminò oltre due terzi della popolazione, ma in parte non piccola ciò deve essere spiegato con l'emigrazione costante in altre località di membri del nucleo originario, come era già avvenuto con lo spostamento a Reno e nel Tizzanese.
In base al ritrovamento della minuta di un atto rogato a Calestano dal notaio Tebaldi in data 3 giugno 1581 e riguardante una permuta tra il reverendo Giacomo Raschi, rettore del Beneficio di San Rocco e il reverendo Giacomo Gallini di Curatico, si ha conferma di chi dovrebbe essere il più remoto avo della linea genealogica continua che giunge fino a chi scrive. I due religiosi, per razionalizzare la collocazione di alcuni terreni delle proprie istituzioni, situati rispettivamente nella zona di Curatico e di Beduzzo, intendevano scambiarsi la proprietà dei due fondi, dopo aver fatto accertare il loro valore da appositi stimatori elencati nell’atto: il reverendo Giovanni Maria Bertini, parroco della chiesa pievana di San Prospero di Beduzzo, Pietro Pacchiani e Genovese Marsigli, console del comune di Beduzzo, tutti abitanti di questo.
Pietro deve essere quello che appariva già negli estimi fiscali che ho citato sopra, con il suo nucleo di cinque persone e diversi beni a Beduzzo.
Di seguito si può vedere il testo integrale della trascrizione di tale documento e il frontespizio del manoscritto (conservato a Parma, Archivio di Stato, fondo notarile, Matteo Tebaldi, filza 2756): [Rep. N. 11]
1581 die tertio mensis iunii. Constituti coram me notario, secundo notario et testibus (…) venerabilis dominus Iohannes Maria de Bertinis filius quondam (Barbe...) rector ecclesie sancti Prosperi de Beducio medio eius iuramento tacto eius pectore sacro nec non et Petrus de Pachianis filius quondam Iohannis Iacobi et Genovensis de Marsiliis filius quondam Marsilii habitatores ville Beducii medio et (cuiuslibet) eorum iuramento tactis scripturis uti et (tanquam) estimatores ellecti inter dominus Iacobus de Raschiis uti et (tanquam) rectore beneficii sancti Rochi fondationi ecclesie maiori Parme ex una
et venerabilis dominus Iacobus de Galinis de Curatico ex alia ad estimandas duas eorum petias terrarum quas permutare intendunt inter se se retulerunt inibi notario infrascripto estimasse unam petiam terre iuris dicti beneficii laboratorie sitam in pertinentiis Curatici (predicto) loco dicto interiore confinantem ab una parte (...) Cristofori de Venturinis, ab alia Iacobi de Venturinis, ab alia domini Dominici de Venturinis (salvis aliis confinibus) et quam esse et fuisse (dixerunt) pretii et valoris scudorum duodecim auri nec non et estimasse aliam petiam terre iuris predicti domini Jacobi de Galinis laboratorie (site) in pertinentiis Beducii, loco dicto alle lame, confinantem ab una parte iura beneficiiª sancti Rochi predicti, ab alia Pasquini de Raschiis, ab alia Antonii de Raschiis salvis aliis confinantibus et quam fuisse et esse (dixerunt) pretii et valoris scudorum duodecim cum dimidio auri et ita dixerunt et (attestati) fuerunt ut supra et pro ut supra.
Actum in terra Calestani et in appoteca infrascripti domini Dominici Borsani, presentibus ibidem
venerabile domino Dominico de Venturinis, filio quondam Antonii habitatore ville Domus Salvaticorum teste (...) et Antonio de Graianis, filio quondam Gasparini, Iacobo de Ridulphis, filio quondam (..Bertini), ambobus habitatoribus ville Pugnetuli.
Et presente etiam domino Dominico Borsano pro secundo notario.
Nel testo il nostro Pietro è identificato come figlio del fu Giovanni Giacomo, che quindi assurge a nuovo capostipite e fa addentrare la mia linea genealogica diretta nel medioevo propriamente detto, la cui fine è per convenzione fissata al 1492. Giovanni Giacomo o più probabilmente Giangiacomo dovrebbe essere infatti nato intorno al 1485, in base ai rapporti di età con il figlio che abbiamo visto sopra. Se corrispondesse al Giangiacomo di cui all'atto del 1497 più sopra citato l'epoca della nascita andrebbe peraltro un po' spostata indietro, intorno al 1472.
Un altro dato che si può ricavare da questo interessante documento è che Pietro, nominato stimatore insieme al parroco ed al console del paese, doveva essere anch’egli persona in vista nella comunità, il cui ruolo e competenza erano generalmente riconosciuti.
Non risulta dalle ricerche fatte fino ad oggi che qualche membro della famiglia Pacchiani di Beduzzo abbia mai ricoperto cariche amministrative, di console o di mistrale. La prima carica doveva venire affidata a due membri della comunità – nel 1581 risultano infatti consoli Genovese Marsigli e Bernardo Miodini – al mistrale pare competessero attività di livello più specifico, tra cui l’attribuzione delle colte, in pratica le aliquote di tassazione che gravavano sugli abitanti dei vari comunelli montani (la stessa fonte d’estimo riporta in quell’anno come mistrale Pietro Raschi). Tale assenza tuttavia non è necessariamente segno di posizione socialmente poco rilevante. L’elezione – tale era infatti il sistema generalmente usato per designare questi “ufficiali” – poteva probabilmente anche venire rifiutata. In ogni caso la nomina quale stimatore, nel caso citato, depone senz’altro a favore dell’ipotesi che la persona in questione godesse della considerazione della comunità o comunque dei suoi membri in vista, quale persona onesta ed affidabile10.
Il figlio Giannantonio
Il fisco dell’epoca continua a perseguitare gli abitanti del Ducato di Parma, nato nel frattempo, nel 1545, e la documentazione relativa consente quindi di seguire i discendenti di Giangiacomo e di Pietro. Il figlio di quest’ultimo, che abbiamo già identificato, Giovanni Antonio, ricompare infatti come capofamiglia in un successivo censimento fiscale, redatto dal commissario ducale Girolamo Mancassola nel giugno 1596. Questo censiva gli abitanti del contado di età “dalli 10 sino alli 70 anni inclusive et delle bestie bovine”. A Beduzzo, con due buoi, troviamo “Giovanni Antonio Pachiano d’anni 40 ha boche tre”: oltre a lui stesso un “Giovanbattista d’anni 12” e una “Andriola d’anni 22”. Dobbiamo presumere che Giovanbattista sia il figlio (o il figlio più vecchio!); della madre non si sa nulla, dovrà ipotizzarsi che sia deceduta, in quanto l’età di Andriola non permette di identificarla né come madre, e neppure forse come sorella di Giovanni Antonio; potrebbe trattarsi magari di seconda moglie o di altra parente convivente. Forma poi nucleo a sé una “Attilia delli Pachiani d’anni 30 ha boca una”, per la quale allo stesso modo ogni ipotesi di parentela con gli altri è destinata a rimanere non confermata.
Finora la documentazione fiscale è riuscita a farci seguire il filo genealogico della famiglia, indicando i primogeniti in vita ed i genitori: salve improbabili omonimie, quindi, non c’è soluzione di continuità nella discendenza di Giangiacomo, rappresentata in questo momento da Giovanbattista, nato circa nel 1584 e residente a Beduzzo. Oltre a testimoniare la presenza di bestiame da lavoro e quindi verosimilmente la condizione di contadini dei membri di famiglia, queste avare fonti non dicono nulla. Non sono comunque presenti titoli che possano indicare altre e diverse attività, come poteva invece essere per mastro Nicolò di Tizzano nel 1500.
Il censimento appena citato registra il numero di bocche, quindi le persone, ed il fatto che non indichi altri nuclei oltre a quelli di Giannantonio e Attilia prova che non esistono altri gruppi familiari Pacchiani a Beduzzo nel 1596. Bambini di età inferiore ai 10 anni o anziani di oltre 70 anni - che non sarebbero segnalati dalla fonte d’archivio - rientrerebbero necessariamente in questi gruppi familiari. Sarebbe diverso se si trattasse di estimi di terreni, che sarebbero verosimilmente imputati ancora al titolare, anche se di età superiore ai 70 anni, in quanto per tale rilevazione l’età non influiva.
Neppure i dati parrocchiali di Beduzzo per il Seicento, del resto, indicano altri nuclei Pacchiani diversi da quelli riferibili ai discendenti delle persone appena citate. Non si hanno neppure registrazioni di personaggi maschili defunti a Beduzzo e di cui non si conoscano gli avi.
Come già detto, eventuali altri figli maschi avrebbero quindi potuto essere emigrati, mentre un'ulteriore causa del fenomeno potrebbe essere ricercata nelle pandemie di peste che dal 1348 a intervalli e con virulenza diversa da zona a zona, continuavano a colpire le diverse regioni d’Italia e d’Europa (alcuni tra gli anni in cui è documentata un’epidemia di peste nella zona del parmense sono il 1348, 1361, 1374/5, 1409/1410, 1428/1429, 1528, 1629/1630).
Il Seicento
E’ sempre la rilevazione fiscale che ci permette di ritrovare le tracce della famiglia pochi anni più tardi, nel 1616. La rilevazione in questo caso sembra ancora essere un estimo di bocche, integrato da un ulteriore fascicolo contenente una lista di persone del paese obbligate, presumibilmente anche qui in base alla loro condizione ed al possesso dei necessari mezzi concreti, a servizi di trasporto per il governo ducale, i cosiddetti “careggi”. (...) In questi due ultimi estimi del 1616 non appare più Giovanni Antonio, bensì Giovanni Battista che, risultando – omonimie escluse – il figlio, ha ereditato la guida di famiglia, evidentemente dopo il decesso di Giovanni Antonio, avvenuto quindi ante 1616.
Nei registri parrocchiali, che iniziano proprio a metà del Seicento, una registrazione di morte informa che in data 5 maggio 1661 è deceduto “Giovanni Battista di fu Giovanni Antonio”, confermando che questo dovrebbe essere il medesimo filo genealogico seguito sulla documentazione fiscale dell’Archivio di Stato. Oltre ai nomi, le età sono infatti del tutto compatibili con quelle risultanze.
Altre concordanze sui registri parrocchiali e in particolare l'annotazione di morte del 24 settembre 1678 di un Giovanni Antonio di fu Giovanni Battista e Pellegrina indicano con ogni probabilità che le ipotesi fatte erano corrette e che si tratta ancora della stessa famiglia e rivelano che Giovanni Battista aveva dato al proprio figlio il nome del nonno. Se questo fosse il primogenito o invece l’unico figlio non è dato sapere: nelle registrazioni parrocchiali non vi è traccia di altri discendenti. Nel 1630 ha percorso l’Italia l’epidemia di peste resa famosa dal Manzoni, che potrebbe avere mietuto vittime anche tra eventuali altri figli, che all’epoca dovevano avere meno di vent’anni.
Qualche dato in più sulle condizioni di vita della famiglia, oltre a quelli più direttamente genealogici, e in particolare sulle coltivazioni e l’alimentazione delle famiglie a Beduzzo verso la fine del Seicento le possiamo ricavare da una “denuncia delle bocche umane e de’ raccolti nello Stato Parmense” del 1678. Risultano in tale anno a Beduzzo circa 270 “bocche”. Qui incontriamo un unico nucleo di Pacchiani, con Giannantonio “Pachiani” (il secondo) con 9 bocche. Tale ultimo numero trova sostanziale corrispondenza nel numero dei componenti della famiglia di Giannantonio nel 1678 come risultante dalle fonti parrocchiali.
Nell’introduzione che precede i dati ci sono inoltre indicazioni sui criteri di conteggio adoperati per individuare le quantità di biade imputate, si spiega che va tenuto conto per i contratti di mezzadria della sola quota di parte del mezzadro, in quanto quella padronale è esente, ecc.: ecco il testo dell'introduzione, riportata più o meno simile su ogni modello di rilevazione. Questo, particolarmente coerente, è relativo alla villa di Mulazzano:
"Nota di tutte le boche humane ritrovate et biave racolte et spigolate questo anno 1678 nella villa di Mulazano ove Mistrale il signor Liandro Capelli, levate dalle are a staro a staro, avertendo, che si sono poste a possesione per possesione et ad ogn'uno tante parte come et quante possesioni hanno et chi le lavora separatamente una dall'altra et in somma si sono poste tutte quelle che intieramente sono statte levate dalle are et di più si sono detrate et poste separatamente quelle che hanno a servire per mangiare da quelle da sementa di partita in partita et si fa mincione chiaramente delli padroni che hanno racolto sul suo a sua mano, chi fa a mezadro et a mezadro per mezadro separato uno dall'altro, ecetuatti li fitabili per la parte domenicale, che la danno a Parma, et il simile si è fatto delli famegli, casanti, aradori, campari, ferrari, barbieri, sartori, zavatini, et altri che riscodono et guadagnano biave d' ogni sorte, avertendo che queste (sarano) datte anco dalli padroni et mezadri delle are comprese nelle loro partite pero questi si pongono in ultimo separatamente et incominciando alli primi sono primo".
I raccolti di “formento, segale, legume, grano vestito” sono pertanto divisi in raccolta per mangiare e raccolta per seminare. La quantità attribuita a Giannantonio per il frumento può essere definita, in rapporto alle altre famiglie di Beduzzo, media e ciò anche in relazione al numero di bocche di ciascuna: in dettaglio per la famiglia di Giannantonio, con 9 bocche: frumento 4, segale nulla, legume 2 e grani vestiti 10; da semina: 6, nulla, 2, 15. Si nota dall’esame globale che - come valore assoluto - i “grani vestiti” sono in numero maggiore e li hanno praticamente tutti, segue il frumento e il legume, questo invece non in valore assoluto, ma come numero di famiglie che ne possiedono.
Il ramo di Reno della famiglia Pacchiani, esaminato sulla base dello stesso tipo di estimo, stava molto meglio: pur essendo difficile dare un giudizio preciso senza una visione globale della situazione, i raccolti attribuiti al capofamiglia di Reno “Pietro Ilario Pachiani” con sei bocche sono: frumento 12, segale 3, legume 6, grani vestiti 6. Da seminare: 20, 4, 6, nulla. La sua media è molto alta: l’unico contribuente di Reno che gli si avvicina ha valore 10 di frumento, ma 11 bocche. Si nota inoltre una notevolissima quantità di cereali da seminare, quindi destinati ad un utilizzo potremmo dire oggi “imprenditoriale”: il ramo di Reno non si limita a nutrire i suoi componenti, ma è probabilmente anche un produttore per il mercato.
Se poi si esamina il rendiconto dello stesso estimo imputato ad un discendente del ramo trasferitosi a Provazzano e residente a Bannone, si fa ancora maggiore luce sulle situazioni molto disparate dei coltivatori nelle diverse zone del contado parmense. Per fare un confronto estemporaneo, ma efficace, tratto da questo interessante estimo del 1678, abbiamo:
Gianantonio Pachiani a Beduzzo con ben 9 bocche e le seguenti unità di misura: raccolti da mangiare:
frumento 4,: segale /, legume 2, grani vestiti 10. Da semina: 6, /, 2, 15.
Bocche 9;
Pietro Ilario Pachiani a Reno:
frumento 12, segale 3, legume 6, grani vestiti 6. Da semina: 20,4,6,/.
Bocche 6;
S.r Simone Pachiani a Bannone
frumento 23, legume 18, grani vestiti 26. Da semina: 17, 7, 11.
Bocche 4.
Se ne deve dedurre, anche se solo sulla base di questi pochi dati, che a Beduzzo ci si trovasse in una situazione forse di mera sopravvivenza e comunque enormemente peggiore degli altri due nuclei: il grano più nobile e nutriente, il frumento da mangiare è a Reno tre volte tanto per un numero di bocche ridotte di un terzo ed a Bannone sei volte tanto con meno della metà delle bocche! E la situazione dei rapporti non migliora con gli altri prodotti.
E' chiaro che anche la qualità dei terreni fa la sua parte, ma la sensazione è che chi si è spostato da Beduzzo abbia veramente "fatto fortuna", anche se, per spiegare come, a questa ricerca mancano ancora molti elementi.
Appena un paio d’anni prima, nel 1676, era stato eseguito a Beduzzo un altro estimo, che sostanzialmente confermava la sensazione ricavabile da quello appena visto: Giannantonio Pacchiani ha rendita o comunque sostanza tassabile per un'unità di valore pari a 3, che lo mette, rispetto alla maggioranza degli abitanti del paesino, fra i più "abbienti". Ma è una media tra poveri. Chi gode di una posizione di rilievo sociale ne ha ovviamente una adeguata anche economicamente, molto distante dalla gran parte dei villici: come il “Signor Luogotenente” Botti, con un valore di 23, o ancora un Lazaro Raschi con 10. Gli altri hanno invece al massimo valori di 4 o 5. Volendo ancora confrontare la situazione con quella dei Pacchiani di Reno, Pietro Ilario è registrato con un valore di 15, che è anche il più alto per quella località.
Mentre per Beduzzo e Reno sappiamo la consistenza in quegli anni anche delle bocche e quindi del numero dei familiari per nucleo, appaiono meno significativi i dati di alcune altre località del Parmense, non conoscendo l'ampiezza di queste famiglie. A “Lisignano di Torchiara” c’è il “signor p. [prete?] Camilo Pachiano” con valore 2; a Provazzano Pietro Antonio Paciani 2½, Antonio Paciani 5 ½, Felicio Paciani 6.
Oltre all’indubbio interesse di questi documenti per cercare di illuminare le condizioni di vita della popolazione rurale, questi dati corrispondono perfettamente con le ipotesi del filo genealogico illustrate sopra: Giannantonio, presente nel 1676 e anche due anni dopo, muore il 24 settembre 1678, lasciando la conduzione della famiglia al figlio primogenito Pietro, che apparirà infatti nei registri degli estimi dopo tale data.
L’ “estimo della Villa di Beduccio, nel quale si contiene tutti liberi Rurali, che sono nel territorio di detta Villa di partita in partita separatamente l’una dall’altra, con la nota della stima di tutti, fatto l’anno 1684: dalli Stimatori elleti dalli Consoli di detta Villa di comune consenso” contiene infatti dalla pagina 124 alla 128 l’elencazione dei diversi terreni e beni immobili posseduti da un Pietro Pacchiani, identificati col nome della località e dei proprietari confinanti. Ecco qui una copia dell'indice:
Costui sarebbe da identificare, in assenza di possibili omonimi, con il Pietro Giacomo – il cui nome d’uso potrebbe senz’altro essere stato Pietro – nato il 25 maggio 1652 da Giovanni Antonio e della moglie Maria Antonia Giacopinelli, che dovrebbe essere anche il loro primogenito.
In occasione della redazione di questo estimo per la prima volta il nome della famiglia di Beduzzo si trova scritto così come oggi, con la doppia c. Sempre da questa fonte si ricava che i Pacchiani di Reno, e in particolare il già conosciuto Pietro Ilario, mantengono ancora possedimenti nel territorio di Beduzzo.
Nei libri parrocchiali di Beduzzo
Fino a questo punto le fonti fiscali ci hanno indicato la famiglia Pacchiani rimasta a Beduzzo come unitaria, con il primogenito maschio che eredita la guida di essa, lasciando in ombra altri possibili rapporti familiari e soprattutto l’esistenza di altri figli. Ma da qui il velo che le esigenze dell’estimo stendono sulla composizione della famiglia e in particolare sulla serie di fratelli e sorelle viene almeno in parte strappato grazie alle ricche testimonianze contenute nei libri parrocchiali – che datano dal 1651 – e possiamo conoscere in dettaglio come era fatto questo gruppo parentale.
Compare subito una discreta schiera di 10 fratelli del nostro Pietro, tra cui un Domenico nato nel 1654, secondogenito, poi altre sorelle fino ad un Giuseppe, nato nel 1661 e altri minori, tra cui quello che poi prenderà l’abito ecclesiastico, Remigio.
Il ramo di famiglia che è giunto a Bolzano ha come capostipite diretto non quest’ultimo Pietro, bensì il fratello minore, Giuseppe. Non ho incontrato estimi fiscali successivi da cui dedurre a chi venisse imputato il patrimonio di famiglia dopo la morte di Pietro, avvenuta nel 1736, come rivelano ancora i libri parrocchiali. Il ramo principale, quello di Pietro, pare tuttavia estinguersi in quanto privo di eredi maschi. Candidato rimaneva quindi unicamente il secondogenito Domenico, del quale tuttavia si perdono le tracce nelle fonti finora scoperte e di cui manca la registrazione di morte nei libri: si potrebbe comunque credere che ciò sia dovuto a svista o a morte in tenerissima età. Anche se non decisivo, va infatti notato che il nome Domenica è stato posto poi anche ad altre due sorelle, nate in anni immediatamente seguenti e di cui la prima è morta poco dopo la nascita: ciò deporrebbe per una probabile morte anche del secondogenito Domenico. Se fosse avvenuto realmente così, nulla si sarebbe frapposto tra Giuseppe e l’eredità alla guida della famiglia.
Dalla scarna descrizione di frammenti di vita che emerge dalle fonti pare potersi comunque dedurre il dato sostanziale che la famiglia, pur conducendo un’esistenza dignitosa in rapporto a molte altre famiglie del paese, non fosse comunque ai vertici di un’ipotetica classifica del benessere. Qui troviamo piuttosto la famiglia Raschi e soprattutto Botti, anche se ciò non vale per tutti i rami di queste.
Non va però dimenticato che nei registri parrocchiali si fa menzione di una Caterina Pacchiani che andò in sposa ad un membro di questa famiglia, Giacomo Botti, abitante a Parma, che nel 1742 fece battezzare il figlio nella cattedrale. Questo potrebbe indicare che anche la famiglia Pacchiani fosse di stato almeno economico non troppo disprezzabile.
Un dato concordante con questo quadro di relativo benessere è anche l’avvio alla carriera ecclesiastica di Remigio, fratello di Pietro Giacomo nato negli anni sessanta del Seicento: non era da tutti, anche se poi non risulta che tale sacerdote abbia ricoperto cariche di rilievo o la rettoria di una parrocchia. Rimase, a quanto pare, nell’ambito di quella di Beduzzo, coadiuvando l’arciprete Raschi nella cura delle anime.
A cavallo tra Sei e Settecento, inoltre, Pietro prende in affitto un mulino per la macina di grani, effettuando quindi un investimento di tipo imprenditoriale. Non si può considerare infatti il mulino unicamente un mezzo per far fronte alle esigenze dei soli componenti la famiglia.
Nei secoli precedenti il mulino era stato di regola una fonte di reddito posseduta e amministrata dai conti Rossi, ma con l’avanzare dello stato regionale a scapito dei residui feudali, tali beni vennero, appunto, “incamerati”, quindi statalizzati, potremmo dire oggi, e dati in affitto. I Pacchiani erano pertanto diventati mugnai, risultando da alcuni documenti che il mulino sul Parma era a loro affittato per un periodo di oltre trent'anni.
Ne danno testimonianza una rilevazione di tipo fiscale definita “denunzie delle terre e del bestiame”, risalente al 1690: basata su omogenei formulari a stampa riguardanti la “notificazione de’ Bestiami (...) in oltre li Molini, che sono di ragione degl’infrascritti affittati con le Mole infrascritte” dà notizia di un “molino da due mole pastoline” presso il fiume Parma – già possesso dei conti Rossi – affittato in quegli anni dalla Camera Ducale a Pietro Pacchiani. La rilevazione riporta infatti l’uso di beni di proprietà di cittadini residenti a Parma, anche pubblici, come in questo caso, e dati in affitto a privati, tra cui i nostri contadini. Si deve trattare quindi di un mulino ad acqua, probabilmente nel luogo dell'attuale località "Mulino Vecchio".
Rogavano gli atti di concessione in affitto i notai "camerali" e ve ne è traccia infatti negli atti del 4 gennaio 1692, dove Pietro Pacchiani risulta l'affittuario camerale, del 23 aprile 1695, questa volta assieme al fratello minore Giuseppe ed infine del 22 dicembre 1724, dove tale ruolo è preso dal solo fratello Giuseppe11.
Se ne deduce inoltre, sul piano dei rapporti umani, che quelli tra i due fratelli dovevano essere di armonia, altrimenti la gestione in comune del mulino sarebbe stata problematica.
In precedenza, comunque dopo l'incameramento del mulino da parte dell'amministrazione ducale, altri abitanti di Beduzzo ne erano stati affittuari, con alterne vicende: almeno dal 1650 Giovanni Raschi che però, 13 anni dopo, per problemi nel pagare i debiti della gestione accumulati verso la Camera, dovrà assegnare a quest'ultima in pagamento propri beni situati a Beduzzo12.
Non è indicata in generale nei contratti la relativa durata per cui non si può valutare compiutamente che peso avesse questa occupazione artigianale per le famiglie interessate e le vicende stesse degli affitti del bene ai diversi abitanti di Beduzzo.
Dall'assegnazione, nel 1663, di propri beni alla Ducal Camera da parte di Giovanni Raschi per appianare i suoi debiti, si deduce che a Beduzzo c'era all'epoca anche un'osteria. Il 26 febbraio 1727 nuovamente un Raschi, Francesco Maria, ne sarebbe diventato affittuario. Le fonti notarili purtroppo non danno conto dell'intervallo tra queste due date, di circa sessant'anni, che potrebbe riflettere una gestione altrettanto duratura dell'esercizio da parte dei Raschi.
Non ho trovato altre notizie di qualche interesse sulla famiglia Pacchiani nell’arco del Settecento; la linea genealogica prosegue da Giuseppe con il secondogenito Carlo (1704-1783). Il primogenito e omonimo del nonno, Giovanni Antonio, nato nel 1703, ha anche lui nove figli, ma non risultano discendenze maschili di questi nei libri parrocchiali. Ipotesi molto probabile è che un figlio di tale Giovanni Antonio, Pietro Francesco (nome d’uso: Pietro?), nato nel 1729, abbia sposato nel 1776 una Giovanna Coppini, da cui ebbe tuttavia solo figlie. Degli altri figli di Giovanni Antonio non risultano invece discendenti, pur essendo essi rimasti a Beduzzo.
Proseguendo e avvicinandoci a tempi più recenti, incontriamo ancora membri della famiglia dei quali manca nota di discendenza e dei quali inoltre non sono neppure presenti le annotazioni di morte, il che deporrebbe per l’ipotesi di una eventuale migrazione. Fino circa al 1800 non riusciamo infatti quasi mai, come ho già detto, a rintracciare a Beduzzo altri discendenti maschi diversi da chi prosegue la famiglia e questo anche nelle fonti parrocchiali, normalmente molto precise. La sorte dei nominativi persi andrebbe forse ricercata nei libri di altri paesi del Parmense, dove essi potrebbero essersi stabiliti, o forse andrebbe ipotizzata anche per qualcun altro la carriera ecclesiastica... le ipotesi sono innumerevoli.
L'Impero francese
Alla fine del Settecento si può anche pensare che alcuni giovani, di cui mancano annotazioni di morte o di matrimonio, siano stati arruolati nelle file napoleoniche. In tale epoca infatti il ducato di Parma era stato inglobato nell’Impero Francese con il nome di Dipartimento del Taro ed era pertanto soggetto alla leva militare. Questa ipotesi troverebbe parzialmente conferma in alcune carte di amministrazione militare del periodo napoleonico in particolare per alcuni discendenti di Giuseppe e Caterina, nati tra il 1777 e il 1788 di cui non ho potuto reperire annotazioni né di matrimonio, né di morte.
In una lettera del “maire” di Corniglio – ossia il sindaco, con terminologia francese prontamente introdotta nei nuovi possessi – datata 8 aprile 1812, quest’ultimo comunicava al “Département du Taro, Arrondissement de Parme” lo stato dei coscritti appartenenti alle classi che dovevano concorrere alla formazione delle coorti della Guardia Nazionale e che erano morti. Si deve presumere che all’epoca considerata il maire di Corniglio avesse giurisdizione su Beduzzo e non su Reno, ricadente, come oggi, sotto Tizzano e che quindi i Pacchiani da lui segnalati fossero appunto della zona di Beduzzo: della classe 1808 risulta deceduto “in servizio” un Pacchiani Pietro, in data 13 ottobre 1807. Evidentemente la classe non era riferita, come oggi, alle nascite, bensì al raggiungimento di una determinata età.
Potrebbe appunto trattarsi del Pietro figlio di Giuseppe e Caterina nato il 9 aprile 1788, che come età pare corrispondere e di cui manca l’annotazione di morte nei registri, forse proprio perchè morto fuori dalla parrocchia. Inoltre essendo morto “in servizio”, ma non evidentemente come membro della Guardia Nazionale, era probabilmente già arruolato in altro corpo. Non ho purtroppo elementi per dire di più senza entrare nel campo della fantasia.
In altra lettera del 2 aprile 1812 il nostro maire inviava alla stessa autorità già citata un elenco di coscritti con il titolo presentato per chiedere l’esenzione dal servizio nella Guardia Nazionale e tra questi appare un Pacchiani Giacomo che documentava la possibile esenzione con un fratello già in servizio. Effettivamente i dati sono pochi per fare congetture troppo precise, ma non mi pare fuori luogo pensare che si tratti del fratello di quel Pietro deceduto in servizio. Giacomo sarebbe infatti il nome di un altro figlio di Giuseppe e Caterina nato il 15 marzo 1791 e morto nel 1813 (in base al registro parrocchiale).
Sono dati interessanti quelli che si ricavano dai carteggi dell’epoca, in cui un apparato statale molto bene organizzato, come quello francese, viene calato su tutte le articolazioni dell’autorità e quindi anche sui comuni della realtà campagnola del contado parmense. In particolare le chiamate di leva, con le richieste di esenzioni, con i processi ai renitenti e con le inevitabili raccomandazioni che filtrano abilmente tra le righe dei funzionari forniscono uno spaccato gustoso dell’ambiente dell’epoca, peraltro molto simile all’attuale. La corsa alle esenzioni dal servizio era sempre in pieno svolgimento con ogni mezzo.
I coscritti da prelevare dalle classi della zona non sembrano essere stati moltissimi, ma forse proprio per questo nessuno voleva essere arruolato, le scuse o motivazioni fatte presenti alle autorità sono le più varie. D'altra parte esistevano anche legittime cause di esenzione: per chi aveva già un fratello nell'Armata, per chi si "maritava" entro determinate date, per i figli unici di vedove, ecc. Era inoltre possibile essere rimpiazzati - è il termine tecnico che si trova nei bandi, come quello raffigurato qui sotto - da altre persone, purché in possesso dei requisiti prescritti, evidentemente dietro patti economici. Comunque molti giovani partivano e qualcuno inevitabilmente ci lasciava la pelle.
Infine un fatto curioso: in alcuni casi ho trovato che le persone non potevano essere arruolate se non in grado di leggere e scrivere, ma forse questo dipendeva dal tipo di corpo e dai servizi cui sarebbe stato adibito.
Conclusa la parentesi napoleonica i Pacchiani nel corso dell’Ottocento si moltiplicano, fondando nuovi nuclei familiari. Da Carlo si passa ad un secondo Giuseppe (1751-1810), omonimo del proprio nonno e padre dei citati Pietro e Giacomo, e da questo ad un Paolo (1780-1848), che scomparve lontano da casa, dov’era rimasta la moglie incinta, in circostanze che non sono riuscito a chiarire, nei pressi del paese di Gaggio Montano, all’epoca nello Stato Pontificio e attualmente in provincia di Bologna, sull’Appennino, in una zona dove abitarono altri miei avi, i Taruffi con la nonna Tina, nei primi anni del Novecento.
C'è qui un piccolo spazio per dare notizia di un avvenimento che doveva avere molto colpito anche il parroco di Beduzzo dell'epoca, che a fianco dell'annotazione nel libro dei defunti 1778 - 1872 aveva annotato "ad rei memoriam", salvo poi fare qualche confusione con i nomi, ma questo forse proprio per la drammaticità dell'evento e forse per la circostanza insolita. Sotto la data del 10 gennaio 1831, al nome - di qui la confusione - Pacchiani Antonius et Catharina Pacchiani dà conto di un evento di difficile decifrazione, parla infatti di "inopinata eorum corpora extinctione" avvenuta "propter cecitatem eius domum"… spero di dover attribuire il bizzarro linguaggio a mie difficoltà di trascrizione della grafia del curato, ma l'impressione è che invece di cecità intendesse inserire una parola per caduta, crollo. Insomma ritengo che si tratti della rovina della casa dove erano zio e nipote, cioè Carolus aetatis suae annorum quadraginta e Catharina, quest'ultima fornita di generalità: filia quondam Antoni huius ruris. Confrontando finalmente questi dati con i registri ducali di stato civile, dove risultano morti in data 14 gennaio 1831 un Paolo Pacchiani figlio di Giuseppe e Caterina Bonfanti ed una Caterina figlia di Antonio e Antonia Manici, i due infortunati risultano essere Carlo e non Paolo, suo fratello, che morirà nel 1848, e qui aveva ragione il dato parrocchiale. Insieme a lui cessa di vivere la piccola Caterina, nata nel 1827, sua nipote, che al momento della tragedia aveva solo 4 anni.
I dati dei registri parrocchiali e civili si integrano a vicenda, benchè entrambi contengano errori, risolvibili solo, e fortunatamente, attraverso i restanti dati già accertati nel corso della ricerca.
I tempi recenti…
Paolo aveva avuto quattro figli maschi, ma il primo, nato nel 1829, Giacomo, era morto appena nato, come purtroppo accadeva spesso ed è testimoniato anche dagli atti di questa genealogia. Il primogenito di fatto fu quindi Pietro (1835-1903), poi nacque felicemente un altro Giacomo (1841-1900), il cui figlio Domenico, sposando Edvige Prevoli nel 1906, diede una discendenza che, dopo una parentesi a Milano, abita ancora a Beduzzo: Bruna e sua figlia Paola. E infine Biagio Giuseppe (1844-1912), che è risultato essere il bisnonno di un collaboratore dell'Archivio di Parma, come ho scoperto per caso durante le mie giornate in sala di studio…
Il mio avo diretto Pietro sposò nel 1859 Teresa Landi diventando nel 1861 padre di Luigi (Vigèn), secondo di otto figli e mio bisnonno.
Gli altri sette pargoli erano, in ordine di nascita: Amadio Carlo Maria (1859), Angelo (Gilèn, 1864), Alessandro (Lissander, 1868), Ambrogio (1870-1947), nonno dell'Adele, storica ostessa di Trarì, che ancora controlla attentamente tutto quanto accade nella Trattoria Ablondi, moglie di Ugo, già partigiano con Artemio Ughetti, figura nota della resistenza locale. L'Adele mi raccontava che nella stanza della nostra casa che guarda la strada era nata la figlia Mirella, nel 1946. Una volta tra parenti, ma probabilmente in generale in paese ci si sosteneva reciprocamente e quindi, quando occorreva, si metteva a disposizione la propria casa. Poi una Maria, nel 1874, una Elisa nel 1877, che avrebbe sposato Emilio Marazzi nel 1900 e infine Domenico (1881-1959), che ebbe tre figlie da Teresina Miodini: Verina, Maria e Lucia (1921-2004).
Luigi, per un atto di divisione del 1911, ottiene da Amadio diversi beni, tra cui una casa forse nel nucleo "di Paciàn" e con qualche probabilità lo stesso grande terreno su cui sorgerà di lì a breve la nostra attuale casa per mano di nonno Alberto.
Luigi nel 1888 avrebbe sposato Luigia Landi, mentre nello stesso periodo un suo omonimo di fuori Beduzzo curiosamente "convolava" a sua volta a nozze con una sorella di Luigia, Giovanna Landi.
La bisnonna Luigia morì nella notte del 10 dicembre 1945, in casa, a 79 anni. I racconti del paese riferiscono che in quella fredda notte invernale, l'anziana signora, scendendo le ripide scale che portano al piano terra della nostra casa - dove allora abitavano anche lei e Luigi - scivolò o comunque perse l'equilibrio e cadde, rimanendo uccisa. Chi c'era ricorda ancora il trambusto di quella drammatica notte. Bisogna inoltre pensare ad un paese immerso nel buio, senza telefoni, né possibilità di rapidi soccorsi. Il bisnonno Luigi la seguì sei mesi più tardi nel 1946, a circa 85 anni. Di essi, oltre ai ricordi degli anziani, rimane una lapide di marmo murata nell’antico cimitero di Beduzzo, accanto alla parrocchiale di San Prospero.
Sono tanti i ricordi delle estati a Trarì, poche le foto che sono state fatte, dato che all'epoca non c'era ancora la febbre di foto e selfie...
Varie immagini di momenti in campagna: io col nonno nel prato, ancora non recintato, con il cane, io e lo zio intenti alla lettura, nel pomeriggio, nel disimpegno al piano superiore, allora di una bella tinta rossiccia, con la mastodontica radio in radica, perduta nella vendita della casa...
Di nuovo io - all'epoca ero ancora una novità da fotografare - sulla terrazza realizzata dai nonni al posto della vecchia rimessa della stalla.
Note
1) Le notizie a carattere generale sugli usi dell’epoca sono tratte da Albano Sorbelli, “Il comune rurale dell’Appennino Emiliano nei secoli XIV e XV”, Bologna, 1910.
2) Archivio di Stato di Parma, fondo “Comune”, vol. 1450: si tratta dell’estimo fiscale del 1461/1462 riferito alla tassa del sale, il più antico in cui appaiono nuclei familiari di Beduzzo e che viene citato spesso in questa storia. Il libro generale dell'estimo che è giunto fino a noi, con l'elenco dei soli capifamiglia censiti ed il totale dell'imposizione per ciascuna località, è un volume riportato a nuovo nel 1539 da un notaio di Parma per lo stato di usura che aveva raggiunto l'originale. Uniche altre località in cui compaiono Pagrani sono Traversetolo, di cui si parlerà altrove e Barbiano, di cui alla nota che segue e anch'esso trattato poi nel testo.
3) Archivio di Stato di Parma, fondo “Notarile”, atti del notaio Baldassarre Banzi, filza 267.
4) Archivio di Stato di Parma, fondo “Notarile”, atti del notaio Baldassarre Banzi, filza 267.
5) Archivio di Stato di Parma, fondo "Notarile", filza 271 (Baldassarre Banzi), 1481 novembre 6, Calestano (Parma), documento n. 37 del repertorio.
6) Archivio di Stato di Parma, fondo "Notarile", filza 272 (Baldassarre Banzi), 1497 maggio 6, Tizzano (Parma), documento n. 38 del repertorio.
7) Archivio di Stato di Parma, fondo "Notarile", filza 272 (Baldassarre Banzi), 1498 agosto 26, Tizzano (Parma), documento n. 40 del repertorio.
8) Archivio di Stato di Parma, fondo “Catasti Farnesiani”, zona Beduzzo, busta 30.
9) Così è infatti riportato da Gianluca Bottazzi e Mariapia Branchi nel loro contributo "L'estimo del sale di Parma del 1415: il territorio parmense e i dati dell'estimo", in “L’estimo del sale di Parma del 1415”, a cura di Marisa Zanzucchi Castelli e Giuseppe Trenti, citato, pag. XLIII.
10) Archivio di Stato di Parma, fondo “Saline”, busta 24; Beduzzo. Per tali cariche, in generale, si veda Albano Sorbelli, “Il comune rurale dell’Appennino emiliano nei secoli XIV e XV”, Bologna 1910, citato.
11) Cfr. Archivio di Stato di Parma, "Notai camerali", volume 436 (Ranuccio Pisani): 1692, 4 gennaio, Pacchiani Pietro, affittuario camerale del mulino di Beduzzo; volume 443 (Ranuccio Pisani): 1695, 23 aprile, idem e con Pacchiani Giuseppe; volume 484 (Bocelli): 1724, 22 dicembre, il solo Pacchiani Giuseppe, affittuario camerale del mulino di Beduzzo (Inv. 197/9). Gli atti camerali consultati non rendono dunque atto in modo completo della situazione, poiché già prima del 1692 doveva esistere un contratto di affitto a Pietro.
12) Idem, volume 358 (Michelangelo Muziati): 1650, 16 agosto, Raschi Giovanni, affittuario camerale del mulino di Beduzzo; volume 370 (Ranuccio Pisani): 1663, 18 (febbraio), Raschi Giovanni, debitore verso la Camera Ducale di £ 2.425 circa per affitti di mulino e osteria di Beduzzo le assegna in soluto diversi beni in Beduzzo.